Scuola: servono i compiti a casa?

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Andrea Gavosto, dopo l’editoriale di ieri di Mattia Feltri sulla scuola e le parole della ministra Gianni a sua difesa, si chiede: Servono i compiti a casa?

Una maratona da evitare

Servono i compiti a casa? Da sempre la domanda perseguita i genitori, combattuti (si veda il brillante sfogo di Mattia Feltri sul giornale di ieri) fra la volontà di non contrastare le consegne degli insegnanti e l’umana comprensione verso i propri figli (e verso se stessi), costretti a trascorrere lunghe ore su esercizi che talvolta appaiono cervellotici. Come sempre, la risposta non è univoca, anche se l’Italia rappresenta un caso anomalo nel panorama internazionale per l’ammontare di ore spese a casa sui libri. Infatti, dopo i tapini cinesi (14 ore alla settimana) e russi (10 ore), i nostri studenti sono quelli che svolgono più compiti a casa: in media, quasi 9 ore alla settimana, contro le 6 degli statunitensi e le 5 di tedeschi e francesi. Guidano questa classifica, come sempre, i finlandesi che non svolgono nemmeno tre ore di lavoro a casa in una settimana, seguiti a ruota dai coreani. Sapere che i due migliori sistemi scolastici del mondo, almeno secondo le graduatorie Ocse, prediligano il lavoro a scuola anziché quello a casa suggerisce qualche riflessione.

Andiamo per ordine. Un ragionevole numero di esercizi da svolgere al di fuori dell’orario scolastico non è un male. Assegnare i compiti a casa costringe infatti gli studenti a assumersi delle responsabilità: capire che cosa è stato loro richiesto, trovare le risposte, valutarne la correttezza, sottoporsi al giudizio degli insegnanti (e al confronto con i compagni). È una prima dimostrazione di autonomia, di capacità di auto-organizzarsi, che va coltivata. Gli studi più recenti sottolineano come la coscienziosità sia il tratto personale più legato ai successi nello studio e nella vita: stimolare l’attitudine a porsi degli obiettivi, ad aumentare l’impegno, a non demordere di fronte agli ostacoli è uno dei principali insegnamenti che la scuola deve dare. La prima lezione, dunque, è che un po’ di compiti a casa vanno fatti: dagli studenti, però, non dai genitori (o da chi fa le ripetizioni). Altrimenti, abbiamo la totale de-responsabilizzazione dei ragazzi, che si limitano ad attendere la risposta esatta, senza fare alcuno sforzo, anzi un po’ impazienti perché hanno (ovviamente) di meglio da fare. Lo so che è gratificante per una mamma o un papà sentirsi utile ai figli (ci casco regolarmente anch’io), ma non è la scelta migliore dal punto di vista educativo.

 

La seconda lezione che possiamo trarre dagli studi internazionali è che dare molti compiti scava e accentua solchi di natura sociale fra gli studenti: tipicamente sono infatti i figli delle famiglie più istruite e benestanti che trascorrono più tempo a casa sui libri, perché i genitori sono più esigenti o perché hanno i mezzi per alimentare l’industria delle ripetizioni, spesso in nero, che è uno degli aspetti più disdicevoli della nostra scuola.

La terza lezione è che i compiti non devono servire a studiare ciò che il docente non è riuscito a completare in aula, come spesso avviene, o, peggio ancora, essere una punizione per il comportamento in classe: così davvero non servono a nulla. Le assegnazioni a casa devono essere strettamente legate a verificare se lo studente ha capito quello che è stato appena fatto a scuola: devono pertanto essere chiare e mirate e, soprattutto, i ragazzi devono ricevere un feedback immediato dall’insegnante. Le lunghe attese della correzione ne vanificano l’utilità.

Di sicuro – in questo Mattia Feltri ha ragione – il modello imperante nella scuola italiana (almeno alle medie e alle superiori, per fortuna meno alle elementari), basato sulle lezioni frontali a scuola e su caterve di compiti a casa, è vecchio e superato. La «buona scuola», come ci dimostrano le esperienze straniere, si fa, appunto, a scuola, allungando e diversificando l’orario, programmando insieme la didattica, creando piccoli gruppi omogenei di studenti, personalizzando i percorsi, per rafforzare chi ne ha più bisogno e insieme per permettere approfondimenti a chi è più avanti. In questo contesto, ancora quasi tutto da costruire in Italia, pochi compiti mirati a casa avrebbero un senso.

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