La Turchia ”serve”, ma Turchia è Erdogan, e la puzza è tanta

Erdogan ormai è un fiume in piena e non si preoccupa più nemmeno di nascondere la...

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Erdogan ormai è un fiume in piena e non si preoccupa più nemmeno di nascondere la sua tiranniade. Nella sua perversità sta brandendo il fallito golpe come arma micidiale contro tutti i suoi oppositori interni e sta lasciando crescere un fiume di rabbia e risentimento verso l’Europa rea di non essere corsa a prostrarsi al sultano dopo il fallito golpe legando così, in un tragico e pericoloso vortice, i suoi misfatti in Turchia con i suoi ricatti all’Europa per cui sarebbe più che doveroso avversarlo ed anche abbatterlo, comunque non assecondarlo ed anzi bandire lui ed i turchi tutti perché, di fatto, sono rei di NON aver dato una mano a defenestrarlo veramente per cui: che se lo godano e si arrangino da soli senza pretendere di sedersi a tavola a mangiare con l’Europa per poi alzarsi e lasciare agli altri il conto da pagare.

Sarebbe! Sì sarebbe ma, come ben si sà, la Politica e la diplomazia sono spesso cose sporche, se poi sono alimentate da interessi di vario genere, ecco servita la benda necessaria per non vedere ed i tappi per naso ed orecchie per non sentire più puzza e grida e scegliere la via più “utile e semplice” per agevolarli. Ed ecco allora che si annota: la Turchia ci serve! Ed in funzione di questa utilità tutto, ad ora, si ingoia.

Questa “necessità ed utilità” della Turchia, intesa come territorio, sono oggetto dell’articolo scritto, per la Stampa, dall’ambasciatore Massolo che sottopongo alla vostra lettura.

Non possiamo fare a meno della Turchia GIAMPIERO MASSOLO*

Che fare con la Turchia? In termini politici, è questa la domanda alla quale rispondere.

Specie ora che, per paradosso, proprio in nome della democrazia vengono stravolti in quel Paese i suoi contenuti più ovvi. Mentre il Presidente Erdogan esprime giudizi inaccettabili e giustamente respinti sulle istituzioni italiane e europee.

Doverose le ammonizioni a non eccedere, a non valicare il confine tra democrazia autoritaria e dittatura islamica vestita da riforma presidenziale, necessaria l’indignazione per il paventato ripristino della pena di morte e per le violazioni dei diritti umani, spartiacque nei rapporti con l’Europa. Basteranno?

Erdogan, ben al di là del suo partito e delle istituzioni dello Stato, riassume in sé l’intero assetto politico. È al potere per via elettorale, lo mantiene sulla base di un consenso popolare tuttora maggioritario malgrado le involuzioni autoritarie, forte anche dei ritmi di crescita economica; è contestato da una crescente moltitudine anti integralista, però ancora elitaria anche se consonante con l’Occidente. Non esiste in termini politici, occorre riconoscerlo, una forza d’opposizione in grado di sostituirlo in libere elezioni. Nessuno schieramento alternativo e tanto meno i militari (il golpe è fallito anche per le loro divisioni interne oltre che per scarso sostegno popolare) è in definitiva in grado di garantire che la Turchia si mantenga stabile. Il golpe ha impaurito tutti, sostenitori e oppositori, timorosi del salto nel buio. Non stupisce che il Presidente ne sfrutti le conseguenze. Legittimo domandarsi per quanto tempo ancora siano sostenibili questa situazione e questi metodi. Ma ad oggi lo sono. E non c’è molto da illudersi che esista un prezzo politico da imporre ad Erdogan tale da fargli mutare atteggiamento.

E al di là di lui, si può davvero fare a meno oggi della Turchia?

Una potenza militare in termini di uomini e mezzi seconda a pochi nella Nato, il cui sostegno o almeno astensione sono indispensabili in tutti i processi di stabilizzazione in Siria come in Libia; basi logistiche essenziali per l’efficace contrasto armato a Isis; il controllo della rotta migratoria anatolico-balcanica; un mercato di 80 milioni di persone; il Bosforo come passaggio strategico delle forniture petrolifere globali e l’altopiano anatolico come piattaforma dei gasdotti alternativi alle rotte russo-europee. Non c’è da meravigliarsi troppo, in tempi di terrorismo e crisi geopolitiche, se l’appoggio alla stabilità della Turchia – valore davvero strategico – sia venuto nella notte del golpe, e malgrado qualche esitazione e malcelata speranza del contrario, dagli Stati Uniti come dall’Europa, dai Paesi sunniti (Egitto a parte) come dall’Iran.

È un Paese cruciale e lo è per il solo fatto di esistere.

Che fare, dunque? La posta in gioco è conciliare la stabilità turca con il destino di un leader che molti accompagnerebbero volentieri all’uscita.

Le condanne potrebbero rivelarsi insufficienti a questo scopo. Specie se accompagnate da poco plausibili minacce di allontanamento dalla Nato o di emarginazione dall’Europa (l’accordo sui migranti resta pur sempre in piedi), rischierebbero di produrre effetti controproducenti per l’Occidente, frustranti per la metà dei turchi che la pensano come noi, suscettibili di consegnare del tutto Ankara al ritrovato rapporto con Mosca.

Meglio allora armarsi anche di pazienza strategica, ancorare per quanto possibile Erdogan alle logiche della collaborazione internazionale negli scenari di crisi, rendere credibile e concreto il cammino europeo della Turchia, cercare di allargare nel Paese la consapevolezza che un’alternativa politica è possibile senza compromettere la dignità nazionale.

Lavoro lungo, pragmatico, non sempre consonante con le nostre sensibilità. Eppure inevitabile in nome della nostra stessa sicurezza, che necessita di una Turchia responsabile.

*Ambasciatore

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