L’economia e il pericolo attentati STEFANO LEPRI *

STEFANO LEPRI STEFANO LEPRI  –  Nel 2001, dopo il crollo delle Torri gemelle, a chi...

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STEFANO LEPRI
STEFANO LEPRI  –  Nel 2001, dopo il crollo delle Torri gemelle, a chi doveva viaggiare per lavoro capitò di traversare l’Atlantico su aeroplani quasi vuoti. In tutto il traffico aereo calò del 15 per cento, negli Stati Uniti si persero oltre un milione di posti di lavoro, tutti i Paesi avanzati conobbero almeno un paio di mesi di recessione. Poi il recupero fu rapido, grazie anche alla tempestiva reazione dei governi.

Nei primi giorni dopo quegli attentati, i più sanguinosi della storia recente, parecchi avevano espresso il timore che la globalizzazione, allora galoppante, si fermasse. Non fu così, e anzi a posteriori possiamo vedere che l’andamento dell’economia fu influenzato più da altri fattori: negli Stati Uniti soprattutto i postumi della precedente ubriacatura per le nuove tecnologie.

A Parigi dopo gli attentati del 13 novembre sul momento i danni erano apparsi pesanti: prenotazioni in albergo e vendite nei grandi magazzini si erano quasi dimezzati. Ma poi, a conti fatti, il traffico negli aeroporti risulta diminuito solo del 6% durante le due settimane successive; la Banca di Francia ha stimato una minor crescita di appena un decimo di punto nel quarto trimestre.

Insomma è possibile sostenere che gli effetti del terrorismo sull’economia sono minori di quanto l’orrore della notizia e le prime reazioni facciano presumere. Una spiegazione hanno tentato di offrirla anni fa due economisti, il premio Nobel Gary Becker (scomparso nel 2014, uno dei capi della scuola neoliberista) e Yona Rubinstein.

Analizzando il periodo di attentati in Israele noto come seconda Intifada, cominciato nel 2000, che in 5 anni causò la morte di circa 900 civili israeliani soprattutto in attentati sugli autobus o per strada, i due concludono che a spaventarsi davvero, cambiando comportamento, sono gli «occasionali», ossia coloro che non hanno forti motivazioni per fare qualcosa, e i meno informati.

Invece chi esercita costantemente una attività, viaggia per necessità di lavoro, ha esperienza dei luoghi e delle persone con cui entra in contatto, cambia poco le proprie mosse: stringe i denti e sopporta i rischi. Quanto agli svaghi, Becker e Rubinstein hanno riscontrato che le famiglie tendevano a restare più in casa, i «single» uscivano la sera allo stesso modo di prima.

E’ su una linea simile, in fondo, la reazione delle Borse ieri. A Milano, hanno accusato il colpo i titoli del lusso, legati ai consumi voluttuari, oppure quelli del consumo occasionale di massa. Il grosso dei titoli industriali, soprattutto quelli della produzione di beni durevoli o legati ai consumi duraturi, ha resistito bene.

Potrà capitare di viaggiare di meno per vacanza, o di effettuare acquisti spensierati. La cosa non è affatto irrilevante in un Paese come il nostro, dove il «made in Italy» ha una importante componente di lusso, e il turismo ha un grande ruolo. E’ improbabile al contrario che la gente rimandi l’acquisto di una casa, di una automobile, di un computer.

Oltre è difficile andare, nelle previsioni. Più serio è il discorso sull’accumulo di eventi che possono contribuire a frenare gli scambi e a peggiorare le attese; c’è sempre un filo di paglia in più che spezza la schiena al cammello. Se controlli severi negli aeroporti si sommeranno alla temporanea chiusura dei confini già in atto, i danni potrebbero a poco a poco diventare gravi.

Il rischio maggiore lo avevamo già davanti, la fine dell’area Schengen, dato il numero enorme di pendolari a cavallo delle frontiere, e la quantità di lavorazioni distribuite tra diversi Paesi con arrivo dei pezzi in tempi stretti. Al contempo, tuttavia, un impulso positivo lo potrebbero fornire le maggiori spese per la sicurezza e per la sistemazione dei migranti.

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