Diritto di famiglia: una sentenza lo rivoluziona, è ora di adeguare la legge

A commento della sentenza della Cassazione che riscrive anni di storia italiana in tema divorzile, il...

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A commento della sentenza della Cassazione che riscrive anni di storia italiana in tema divorzile, il docente di diritto della famiglia Carlo Rimini, editorialista de La Stampa, scrive: “Di fronte all’inerzia del legislatore, le sentenze dei giudici sono chiamate ad un ruolo di supplenza: sicuramente la decisione eliminerà ingiustificate rendite vitalizie, tuttavia il nuovo orientamento rischia di creare ingiustizie sul versante opposto”.

Ora cambiamo una legge inadeguata

Era l’anno dei mondiali, quelli del 1970, quando la legge sul divorzio è stata scritta. Erano i tempi di Pelé e di Rivera, ma da allora le norme che regolano i rapporti patrimoniali fra i coniugi dopo il divorzio non sono sostanzialmente cambiate.

Nel 1970 il Parlamento trovò una mediazione: la Democrazia Cristiana concesse il divorzio ma ottenne alcune contropartite. Fra queste la previsione del diritto per il coniuge più debole di continuare a ricevere dopo il divorzio assistenza economica dal coniuge più forte. L’assegno periodico previsto dalla legge del 1970 prolunga, anche dopo lo scioglimento del matrimonio, i vincoli di solidarietà e assistenza che caratterizzano il matrimonio, come se dal punto di vista economico il matrimonio creasse un legame vitalizio non suscettibile di scioglimento. Nel 1990 la Cassazione aveva chiarito che l’assegno di divorzio va concesso se il coniuge debole non ha mezzi adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale.

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Da allora fino alla sentenza di ieri nulla era cambiato. La nostra società e la famiglia sono mutate profondamente. Molti Parlamenti e governi si sono succeduti, i partiti che si erano scontrati nel 1970 non esistono più: eppure l’assegno di divorzio è sempre identico nella nostra legge, ancorato alla sua finalità di dare assistenza al coniuge più debole perpetuando dopo il divorzio la solidarietà coniugale. Nessuno si impegna per modificare un istituto evidentemente vecchio, allineando la nostra legge alle riforme che invece sono state fatte nella maggior parte degli Stati europei.

Di fronte all’inerzia del legislatore, come troppo spesso accade, le sentenze dei giudici sono chiamate ad un ruolo di supplenza. In questo caso la Cassazione ha voluto dare un taglio netto. Ha espressamente affermato che il riferimento al tenore di vita matrimoniale deve essere abbandonato perché «collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici», introducendo una «indebita prospettiva, per così dire, di ultrattività del vincolo matrimoniale». Secondo la Corte, si deve invece adottare un parametro diverso: quello della «indipendenza economica». Se un coniuge è economicamente indipendente e quindi ha redditi adeguati a consentirgli una vita autonoma, non ha diritto ad un assegno dopo il divorzio indipendentemente dalle sostanze dell’altro coniuge e dal tenore di vita matrimoniale.

Questa affermazione sicuramente eliminerà ingiustificate rendite vitalizie che invece erano consentite e tollerate dalla giurisprudenza precedente. Tuttavia il nuovo orientamento rischia di creare ingiustizie sul versante opposto. Ancora oggi vi sono matrimoni in cui uno dei coniugi sacrifica a favore della famiglia le proprie ambizioni professionali per dedicarsi alla crescita dei figli: cosa accade in questi casi se, dopo molti anni di matrimonio, il coniuge più forte decide di essere stanco della vita matrimoniale? Non è forse giusto concedere alla parte che ha effettuato rilevanti sacrifici una adeguata compensazione? Adeguata ai risultati economici che l’altra parte ha conseguito grazie a quei sacrifici.

In Francia l’art. 270 del codice civile espressamente afferma che con il divorzio viene meno qualsiasi vincolo assistenziale fra i coniugi. Il giudice può attribuire ad un coniuge una somma di denaro «compensativa» e il criterio fondamentale per la determinazione di questa somma è costituito dalla valutazione delle conseguenze delle scelte professionali fatte da uno dei coniugi durante la vita comune per l’educazione dei figli e del tempo dedicato a favorire la carriera professionale dell’altro coniuge a scapito della propria. È un norma chiara che accontenta tutti, mentre la legge che il nostro Parlamento non modifica è ormai totalmente inadeguata.

@carlorimini  Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano

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