Anche New York colpita da un attacco spontaneo e rudimentale dolorosamente noto in Europa

 Le indagini puntano a una cellula uzbeka che potrebbe essere attiva negli Stati Uniti. L’attacco è...

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 Le indagini puntano a una cellula uzbeka che potrebbe essere attiva negli Stati Uniti. L’attacco è stato pianificato per settimane. Come scrive Lorenzo Vidino, nonostante «negli ultimi anni le autorità di New York siano riuscite a smantellare svariate cellule jihadiste, era inevitabile che, prima o poi, una di quelle forme di attacco spontanee e rudimentali, riuscisse a mietere vittime nella fortezza». Ora è caccia ai complici di Sayfullo Saipov, il diciannovenne jihadista che martedì ha ucciso otto persone a New York.

La fortezza violata dai jihadisti

Con l’attentato di martedì il movimento jihadista è tornato a colpire uno dei suoi obiettivi classici, quella New York che nell’iconografia dell’estremismo islamico rappresenta il simbolo del potere economico dell’odiata America. Negli anni immediatamente successivi all’11 settembre era stata Al Qaeda che aveva provato a replicare gli attacchi alle Torri Gemelle con operazioni spettacolari. Elaborato piani che prevedevano la detonazione di limousine cariche di esplosivi davanti a Wall Street o il taglio dei cavi del ponte che collega Manhattan al New Jersey e che furono regolarmente sventati dall’intelligence americana, che teneva sotto stretto controllo le comunicazioni tra la leadership qaedista nascosta tra Pakistan e Afghanistan e gli operativi infiltrati in territorio americano.

Il fatto che New York fosse l’obiettivo primario del terrorismo jihadista aveva portato ad una massiccia concentrazione di forze anti-terrorismo nella città. L’ufficio newyorkese dell’Fbi è il più grande del Paese e ha centinaia di analisti dedicati all’antiterrorismo.

E nei mesi successivi all’11 settembre l’allora sindaco Rudolph Giuliani aveva reso la polizia della città una forza antiterrorismo non meno poderosa e aggressiva delle varie agenzie federali. Migliaia di analisti e detective specializzati in antiterrorismo, traduttori da ogni lingua, reclutamento massiccio tra minoranze etniche in modo da poter infiltrare moschee e comunità islamiche. A tal riguardo farà di sicuro discutere nei prossimi giorni il fatto che anni fa la polizia di New York monitorasse regolarmente la moschea Omar di Paterson, New Jersey, e che dalle prime informazioni pare essere il luogo di culto frequentato dall’attentatore di mercoledì. Il programma era stato sospeso dopo che l’American Civil Liberties Union e altre organizzazioni dei diritti civili avevano iniziato una battaglia legale contro la città di New York, definendo le azioni di monitoraggio a tappeto di moschee un’inaccettabile stigmatizzazione di un’intera comunità e mettendone in dubbio la costituzionalità.

L’elaborato sistema di difesa della «Fortezza New York», come a volte viene definita dagli addetti ai lavori, ha funzionato contro le trame «classiche» del terrorismo jihadista, fatte di comunicazioni e passaggi di denaro transcontinentali e perciò più facili da intercettare. Negli ultimi anni le autorità di New York sono riuscite a smantellare svariate cellule jihadiste, perlopiù composte da simpatizzanti dello Stato Islamico senza formali affiliazioni con il gruppo. Ma era inevitabile che comunque, prima o poi, una di quelle forme di attacco spontanee, rudimentali e proprio per questo praticamente impossibili da fermare riuscisse a mietere vittime nella metropoli.

Con il mito dell’invulnerabilità di New York si dovrebbe sgonfiare anche la convinzione, assolutamente non supportata dai fatti, che l’America sia immune dall’ondata di terrorismo scatenata dallo Stato Islamico in Europa negli ultimi anni, che sia un’isola felice non toccata dalla piaga della radicalizzazione che affligge l’Europa. I numeri dimostrano chiaramente come questa percezione, comune su entrambe le sponde dell’Atlantico, non sia veritiera. Da quando è iniziata la mobilitazione per lo Stato Islamico le autorità americane hanno arrestato 143 soggetti, un terzo dei quali progettava attacchi sul suolo americano. I foreign fighter stelle e strisce partiti per Siria e Iraq sono, secondo stime ufficiali dell’FBI, circa 250 – un numero molto inferiore a quello dei francesi (1700) o degli inglesi (900), ma comunque doppio di quello degli italiani. Da notare il fatto che la stragrande maggioranza dei soggetti radicalizzati sono nati o perlomeno hanno vissuto per lungo tempo, e si sono quindi radicalizzati, negli Stati Uniti.

Fatto ancora più rilevante, l’America è il secondo Paese più colpito da atti di terrorismo di matrice jihadista nei tre anni e mezzo che vanno dalla dichiarazione del Califfato (giugno 2014) a oggi. Il database di attacchi mantenuto dall’Ispi e dalla George Washington University dimostra infatti che, se la Francia è il Paese più colpito (22 attacchi), l’America ha visto 18 attacchi sul suo territorio. Ancor più che in Europa, la maggior parte di essi sono state azioni effettuate da cani sciolti, soggetti che hanno solo un’affiliazione ideologica con lo Stato Islamico. Ma, grazie anche all’indiscriminato accesso ad armi automatiche, anche le azioni di questi lupi solitari hanno a volte avuto effetti devastanti – si pensi ai 14 morti dell’attentato del 2015 a San Bernardino o alla strage alla discoteca Pulse di Orlando nel 2016 (49 morti).

Sarà ora interessante vedere quale sarà la reazione del presidente Trump, che ha sempre tacciato la radicalizzazione jihadista come un problema europeo da tenere fuori dalle porte dell’America.

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lastampa/La fortezza violata dai jihadisti LORENZO VIDINO

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