Obama espelle 35 spie russe. Putin nuova tregua in Siria senza USA

Barack Obama caccia 35 diplomatici russi dagli Stati Uniti e il Cremlino annuncia ritorsioni: la...

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Barack Obama caccia 35 diplomatici russi dagli Stati Uniti e il Cremlino annuncia ritorsioni: la fine del 2016 registra il ritorno di tensioni d’altri tempi tra le due maggiori potenze nucleari. A sentire Obama la decisione della Casa Bianca è la conseguenza delle ingerenze della Russia nella campagna elettorale americana. Nello stesso giorno Vladimir Putin annuncia una nuova tregua in Siria tagliando fuori l’America.

“Tanto Obama che Putin giocano le rispettive mosse per condizionare Trump”, scrive Stefano Stefanini. Leggiamolo:

La pericolosa diplomazia a triangolo

Roma ringrazia il Tar e aspetta Capodanno per i botti. Fra Washington e Mosca sono già fuochi d’artificio. Ad accenderli sono Barack Obama e Vladimir Putin. Dal Cremlino, il Presidente russo chiama gioco, partita e incontro sulla Siria. Dalle Hawaii, Obama documenta l’hacking elettorale russo e firma una raffica di sanzioni e di espulsioni mirate. I due giocano ormai a carte scoperte.

Altrettanto fanno il 44° Presidente Usa uscente e il 45° entrante: fra i quali, più che un passaggio di consegne, è in corso una partita di ping-pong. Educata, ma senza risparmiare schiacciate. Il Cremlino non nasconde il tifo per Donald Trump. Non si era mai visto: né nelle relazioni russo-americane né nel collaudato rituale del cambio di presidenza.

Il Presidente russo taglia fuori gli americani dall’accordo che potrebbe mettere fine alla guerra civile in Siria; Obama risponde con vistosa durezza all’interferenza informatica russa nelle elezioni americane. L’uno e l’altro guardano al 20 gennaio quando Donald Trump entrerà alla Casa Bianca, come all’inizio di una nuova era nelle relazioni russo-americane.

Putin gli fa ponti d’oro; Obama cerca di condizionarlo. Il nuovo Presidente degli Stati Uniti trova così un leader russo che gli spiana la strada e un leader americano che gli pone «blocchi stradali» (così li ha chiamati Donald Trump).

Al centro del fuoco incrociato, il Medio Oriente. Non la crisi ucraina, non la Nato, maggiori pomi di discordia russo-americana. Stati Uniti e Russia hanno girato intorno alla crisi siriana senza chiudere un’intesa in chiave anti-Isis e anti-terrorismo; non avendo voluto raggiungerla con Obama, Putin la ventila ora a Trump – da una posizione di forza. Il Presidente russo ha messo a segno due colpi da maestro: un «piano di pace» concordato con Turchia e Iran; l’annuncio da Damasco di una tregua con i ribelli dalla mezzanotte di ieri. Vedremo se la seconda terrà: esclude Al Nusra e Isis e Putin stesso l’ha chiamata «fragile».

L’accordo ignora la Washington di Obama e Kerry, facendo della Turchia di Erdogan l’unico tenue filo che lo collega all’Occidente. Può darsi che Ankara, bontà sua, ne ragguaglierà gli alleati Nato; l’Alleanza serve anche a quello. Putin ha comunque già detto che la porta è aperta agli Usa – agli Usa di Trump.

Il giorno prima John Kerry aveva messo alle corde Netanyahu sugli insediamenti israeliani. La logica, impeccabile, del segretario di Stato uscente, sulla necessità di non ipotecare la soluzione dei “due Stati”, israeliano e palestinese, con un’occupazione di fatto, ha ricevuto una caustica risposta da Gerusalemme. Netanyahu può permettersi d’ignorare Washington. «Tieni duro, arrivo io» l’aveva rassicurato Donald Trump (per tweet – ricambiato – naturalmente).

Netanyahu e, più sottilmente, Putin chiamano il bluff di un’amministrazione uscente perché, grazie a Trump, sanno che avrà poca continuità. Le frecce all’arco mediorientale di Obama sono spuntate. Egli sconta l’ascesa di Mosca e il divario apertosi con Gerusalemme. Sarebbe ingeneroso ignorare il suo ruolo decisivo nel tenere insieme l’Iraq, nel demolire Isis, nel sostenere i curdi e nella lotta mirata al terrorismo, ma i rapporti di forza russo-americani nella regione si sono invertiti a favore di Mosca.

La bordata americana di ieri, con l’espulsione di 35 «operatori d’intelligence» russi e le altre misure di rappresaglia, è però un’arma ancora efficace. Mosca risponderà con un provvedimento analogo – il gioco delle parti è inesorabile. Non può permettersi di aspettare Trump. Sarà difficilissimo al nuovo Presidente americano revocare in tronco il provvedimento. La Russia è il nervo scoperto dei repubblicani; il Senato è tutto a favore di sanzioni per le interferenze elettorali. Sulla Russia è pronto a dar battaglia anche al nuovo Presidente. Donald Trump ha le mani parzialmente legate.

L’eredità russa di Obama a Trump è una relativa inferiorità in Medio Oriente e una tensione bilaterale senza precedenti dalla Guerra fredda. Fra le misure americane potrebbero anche rientrare non dichiarate offensive informatiche, entrando così in una dimensione di guerra «calda». Paradossalmente però, le barriere che il Presidente uscente cerca di erigere al successore potrebbero rivelarsi un viatico. Qualsiasi cosa Donald Trump farà nelle prime settimane e mesi di presidenza sarà accolta entusiasticamente in molte capitali, come Mosca, Gerusalemme, Manila, Ankara – perché «diverso da Obama». Poi anche per lui cominceranno le difficoltà.

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