L’egemonia dei simboli pop

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Simboli pop – Quello che non possono più le ideologie riesce ai film e ai fumetti Ovvero, i prodotti di maggiore successo di quella cultura pop che rappresenta lo sfondo generalizzato e il minimo comun denominatore dell’immaginario occidentale (e, per molti versi, di quello globale).

Se viviamo in una fase ormai marcatamente postideologica, a fare da filo rosso e matrice unificante del discorso politico ci pensano appunto i supereroi e le storie che scaturiscono dalle fiction delle major e delle media company Usa (e non per nulla, a lungo, i protagonisti degli albi della Dc Comics sono stati considerati «di destra» e quelli della Marvel più «di sinistra»). L’elenco sta diventando sterminato e gli esempi si sprecano. Nella sua intervista «di fine mandato» a The Atlantic Obama ha paragonato l’Isis al Joker interpretato da Heath Ledger ne «Il cavaliere oscuro», mentre secondo l’Economist la comparazione con l’irriducibile nemico (e nemesi) di Batman calza a pennello per Donald Trump. I due personaggi identificano altrettanti archetipi antitetici dell’America (e fondamenti incompatibili della teoria politica…): l’ordine vs. l’anarchia; e ora, con l’uscita di Batman contro Superman (la pellicola sulla «guerra stellare» tra il tormentato uomo-pipistrello e il tutto d’un pezzo «uomo d’acciaio»), gli Stati Uniti mettono in scena di fronte al mondo una formidabile seduta di autocoscienza. Nel film campeggia anche Wonder Woman: i supporters di Hillary Clinton veicolano l’immagine della loro candidata vestita come la supereroina (la cui interprete cinematografica «storica», Lynda Carter, già da tempo ha fatto il suo endorsement per l’ex segretario di Stato e moglie di Bill). E, invece no, tuona The Federalist, il sito della destra libertarian e vicino ai Tea party: la signora Clinton è solo una «Wonder Woman del crimine» per la vicenda delle emails segrete.

E non ci sono esclusivamente queste icone a incarnare la riscrittura della politica attraverso lo storytelling della cultura pop: si pensi agli zombi (nei quali si può leggere politicamente un simbolo e il suo contrario) o alle vicende degli X-Men, tra (sofferente) apologia del multiculturalismo e ossessioni cospirazioniste. E che dire dell’uso politico della saga di Guerre stellari, uno dei manifesti cinematografici della postmodernità? L’ultimo esempio al riguardo è l’«anatema» scagliato contro la senatrice liberal Elizabeth Warren, accusata di essere per la finanza l’equivalente di Darth Vader (con la replica di lei di sentirsi piuttosto come la principessa Leila).

Il Novecento è stato, in maniera eminente, il secolo delle masse (e del relativo immaginario collettivo). E gli Stati Uniti, la prima società liberaldemocratica (e di mercato) di massa della storia, hanno saputo tradurre visivamente le loro speranze e angosce, proiettandole con una valenza universale attraverso la potentissima fabbrica dei sogni di Hollywood (e, in seguito, via Web). Nella nazione che ha inventato la cultura di massa ed è fondata – a ogni livello (politica ovviamente compresa) – sulla cultura della celebrità, i supereroi sono, giustappunto, anche delle celebrities. Pure l’internazionalismo comunista aveva i suoi «superuomini» – da Spartaco a Stakhanov -, ma erano troppo «locali» (e pure un po’ troppo «terreni»); e qui, invece, siamo di fronte a una capacità di promozione dei prodotti dell’immaginario verso ogni angolo del Villaggio globale, al di là delle specificità culturali geografiche.

La forza della cultura di massa anglosassone è stata quella di tradursi in mainstream, a tal punto che anche le élites politiche ed economiche dei Paesi di lingua inglese si esprimono abitualmente attraverso quei simboli. Il pop ha conquistato, al passare dei decenni, una sua egemonia perché la cultura di massa piace a tutti (o quasi) indistintamente, e rappresenta, pertanto, l’«esperanto» e il veicolo attraverso il quale farsi capire da fasce larghissime di popolazione in ogni dove. Per gli uomini e le donne della politica diviene così anche un canale di costruzione del consenso e di acquisizione della popolarità. E costituisce, per converso, uno strumento per «resistere» a colpi di transpolitica, la rielaborazione ludico-critica dei simboli della cultura popolare fatta dalla galassia antagonista che, non a caso, ha trovato un volto (o, meglio, un «non volto» collettivo e anonimo) nella maschera di Guy Fawkes, ricavata proprio da un graphic novel, V for Vendetta di Alan Moore e David Lloyd (poi trasformato in film dai fratelli transgender Wachowski).

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