La politica e il lascito perduto della modernità (EUGENIO SCALFARI)

La modernità era stata una fase della vita culturale europea e poi anche americana, che...

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La modernità era stata una fase della vita culturale europea e poi anche americana, che non si chiuse di botto. Ci furono molti altri moderni dopo Nietzsche, soprattutto in paesi ancora in gran parte contadini

IL PROBLEMA non è tanto ciò che sta avvenendo in Italia, in Europa e nel mondo intero, ma ciò che avverrà a settembre. In particolare in Germania (elezioni politiche) e in Italia. Per noi la domanda è questa: si andrà alle elezioni in ottobre oppure si aspetterà la fine della legislatura nella primavera 2018? E che farà Renzi su questo tema? Ho avuto occasione lunedì scorso della sua gentile telefonata, apparentemente motivata dal mio incontro con papa Francesco. L’ho ringraziato e poi abbiamo parlato d’altro.

Andrà in vacanza tra poco con la moglie, hanno in programma un lungo viaggio, poi torneranno e lui si occuperà del partito. Vuole addestrare un folto gruppo di giovani alla politica per rivitalizzare i circoli territoriali del Pd per le nuove battaglie. «Una specie di giovane guardia» gli ho detto «ma con un temperamento napoleonico come il tuo avresti bisogno anche della vecchia guardia. Mi pare che su questo piano stai facendo poco».
«Hai ragione, ci penserò. Intanto godiamoci un po’ di vacanze».

Così è finita la conversazione con un punto fermo: voteremo nel 2018 a legislatura finita. Altre fonti però, assai bene informate, mi hanno avvertito che le sue decisioni sono del tutto diverse. A settembre, massimo ottobre, Renzi vuole andare al voto. Non è di vecchia o giovane guardia da discutere: c’è Renzi e basta così. Sarà vero? È questa la strategia che perseguirà a dispetto di vari esponenti dello stesso suo partito, a cominciare da Franceschini ma soprattutto dal presidente della Repubblica Mattarella. Vedremo. Intanto parliamo d’altro. Le vacanze stanno per cominciare, soprattutto per le persone di età come me. Mi piace dunque di occuparmi di pensieri, di arte, di letteratura e di poesia. Anche la domenica, anzi la domenica soprattutto.

Ho scritto nel 2010, cioè sette anni fa, un libro intitolato Per l’alto mare aperto. Il tema è quello della modernità. Si aprì geograficamente con la scoperta dell’America nel 1492 ma culturalmente un secolo dopo rispetto al Rinascimento italiano e, in Francia, con gli Essais di Michel de Montaigne. E rapidamente andò avanti in Italia, in Francia, in Inghilterra. Poi lentamente all’inizio e rapidamente in seguito, anche in Germania, da Immanuel Kant in poi.

Il culmine in Francia e in tutta Europa fu l’Illuminismo, di Diderot, Voltaire, Rousseau, d’Holbach e molti altri. Culminò con l’Encyclopédie diretto da Diderot, e dal Candide di Voltaire e tutte le opere da lui scritte.
Si dice che in qualche modo fu l’Illuminismo la base culturale dalla quale nacque la Rivoluzione francese del 1789 ed è probabilmente vero. Nonostante alcune cadute e ricadute quella Rivoluzione fu l’inizio della democrazia moderna.

Nel mio libro sopraindicato questo percorso è dettagliatamente illustrato e infatti è stato un vero e proprio successo culturale. È il racconto della modernità che si chiude con il pensiero di Nietzsche e di Freud. Poi la modernità cede ad altre visioni della vita a cominciare dal Romanticismo, dal Decadentismo e dall’Esistenzialismo, che occupano gran parte dell’Ottocento e della prima metà del Novecento.

La modernità tuttavia era stata una fase della vita culturale europea e poi anche americana, che non si chiuse di botto. Ci furono molti altri moderni dopo Nietzsche, soprattutto in paesi ancora in gran parte contadini. In Russia Tolstoj, Dostoevskij, Gogol, Anna Achmatova e molti altri. Contemporaneamente nell’Occidente europeo ci furono Proust, Joyce, e poi Thomas Mann e il suo Doktor Faustus e La montagna incantata.
La modernità tuttavia non era ancora finita, penso a Faulkner con L’urlo e il furore e penso a Garcia Marquez e a Cent’anni di solitudine.

In Europa ci fu ancora modernità romanzesca, saggistica, musicale e poetica. Il mio libro si conclude con un capitolo intitolato Il gran finale e lo rappresentano due nomi: uno è Italo Calvino del quale ho già scritto chiudendo il mio pezzo con l’ultimo suo libro: Lezioni americane che aveva appena finito quando una morte prematura lo colse. E poi Montale.
Ha scritto solo poesie, per almeno cinquant’anni, ma i volumi più belli sono gli Ossi di seppia e Le occasioni. Mi auguro che i lettori abbiano un godimento culturale a rileggere alcuni brani che mettono in luce il pensiero di uno dei nostri ultimi grandi poeti.

Montale è stato il poeta di una generazione, la mia, la nostra, l’ultima generazione dei moderni. Bisogna scavare dentro i suoi versi, dentro di lui e di noi per capire le ragioni di questa identificazione.
La malinconia soprattutto. Malinconia per le occasioni mancate, rimpianti, gli «Eldoradi» sognati ma non raggiunti, le comete e la galassia, «fascia d’ogni tormento», le «isole dell’aria migrabonde». E una preghiera commovente in cerca di tenerezza:
«Il vento che nasce e muore
nell’ora che lenta s’annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore».

La nostra fu una generazione malinconica, abbastanza consapevole dei propri doveri e poco sensibile ai diritti; una generazione condizionata da complessi di colpa esistenziali dei quali non ci rendevamo ragione, che ci facevano sentire debitori di debiti immaginari e tuttavia pesanti da sopportare. Misogini: la donna, sempre vagheggiata e sempre fuggitiva, rappresentava una felicità alla quale non avevamo il diritto di aspirare. Perciò, continuando a vagheggiarla, fuggivamo.

Così anche lui e la sua poesia: «Esterina i vent’anni ti minacciano, grigiorosea nube» «… m’occorreva il coltello che recide…», il giardino dei limoni «meriggiare pallido e assorto», il muro irto di cocci di bottiglia sul quale siamo costretti a camminare. Era questa la sua malinconia. E la nostra.

Quasimodo lo riecheggio da lontano con il suo Ed è subito sera e con la traduzione dei lirici greci che fu il suo capolavoro:
«Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte; giovinezza dilegua
e io nel mio letto resto sola».

In Montale la malinconia è la linea di uno stato d’animo, una sonorità di fondo che non registra intervalli e si esprime sempre sul filo della memoria, del gocciolio del tempo, schegge di ricordo, Adios muchachos, companeros de mi vidas, Dora Markus, Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale.
Ecco un altro motivo di identificazione, scabro ed essenziale. Come l’osso di seppia disseccato sulla sabbia, corroso dall’acqua salina sulla battigia.
Noi eravamo saturi di dannunzianesimo, di pose eroiche, di cuore da lanciare oltre l’ostacolo. La reazione inconscia a tutto questo fu la poesia di Montale. La malinconia, la memoria delle occasioni mancate, l’asciuttezza dello stile, una metrica e un linguaggio innovativi pur nell’ambito del canone poetico tradizionale, ma c’è un altro e ancor più rilevante motivo di identificazione tra il poeta e la generazione alla quale la sua poesia era indirizzata: ciò che si sarebbe dovuto e voluto fare ma non si fece, osare ma non si osò.

Si è data un’interpretazione politica a questa scissura tra i pensieri e la vita di Montale ma non credo sia stato questo oppure non soltanto questo. Furono le scelte dell’anima e d’amore, il destino e il caso, la necessità e la libertà di scontrarsi tra loro costituendo il dramma di quella generazione che la voce e il canto del poeta interpretò con drammatica pienezza e maestria di linguaggio.

Da questo punto di vista sono i versi composti tra il 1928 e il 1939 e poi raccolti sotto il titolo di Occasioni a raggiungere il culmine di quel La casa dei doganieri: ventidue versi divisi in quattro stanze dove autobiografia, memoria, malinconia, straniamento, paesaggio, raggiungono una fusione che richiama i canti più ispirati del Leopardi.
«Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi, altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità».

Forse i nostri contemporanei hanno rifiutato il lascito della modernità. Riusciranno a raccordare quel fuso orario fuori registro semmai vorranno tentar nell’impresa? Ce lo auguriamo ed è ancora Montale che ci presta le sue parole per esprimerci con gli ultimi seri versi de La casa dei doganieri:
«Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta».

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/Repubblica

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