Angeloni su MPS: ”lo Stato da solo non basta”

In un’intervista Ignazio Angeloni, membro italiano della Vigilanza Bce, spiega che «lo Stato da solo...

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In un’intervista Ignazio Angeloni, membro italiano della Vigilanza Bce, spiega che «lo Stato da solo non basta» e invita l’istituto di Siena a «coinvolgere azionisti e obbligazionisti».

“Lo Stato da solo non basta. Siena deve coinvolgere azionisti e obbligazionisti”

Angeloni (Bce): pubblico e privato condividano i rischi. “Etruria e gli altri istituti in crisi? Soluzione imminente”

FRANCOFORTE – A differenza della nuova Eurotower, il vecchio grattacielo Bce che ospita il suo ufficio al trentaquattresimo piano si confonde fra quelli del cuore finanziario di Francoforte. Ignazio Angeloni, membro italiano della vigilanza europea, lo frequenta sin da quando al bar interno si usava ancora il marco tedesco. Oggi è il funzionario italiano più alto in grado nella struttura che controlla le grandi banche della moneta unica. È fra coloro i quali hanno seguito da vicino la vicenda del Monte dei Paschi. Dice che il principio della condivisione degli oneri – quello che impone la conversione delle obbligazioni Mps e azzerò quelle di Etruria – va «mantenuto ma anche regolato e gestito» per «evitare rischi al sistema». Dalla risposta sul destino delle quattro banche fallite l’anno scorso si intuisce che la soluzione è imminente.

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Angeloni, per evitare il fallimento del Monte dei Paschi il governo ha scelto la strada del salvataggio pubblico scartata la scorsa estate. Eppure il primo stress test negativo per la banca senese risale al 2014. E’ arrivato in ritardo?  

«L’intervento pubblico per una banca è sempre l’ultima opzione ed è soggetto a regole stringenti. I vertici di Mps hanno lavorato in questi mesi a varie soluzioni che la vigilanza ha seguito con attenzione, e per le quali aveva concesso un certo periodo di tempo nella speranza che andassero a buon fine. Esaurito questo tempo il governo ha valutato che un intervento fosse necessario».

Si tratta del terzo intervento pubblico in pochi anni. Per quale ragione questa volta dovrebbe essere l’ultima?  

«Potrà esserlo se verranno attuate soluzioni incisive, in particolare rispetto all’obiettivo di ripulire il bilancio della mole di crediti deteriorati. Va anche considerato che ora Mps è compiutamente vigilata dalla nostra istituzione. Continueremo a fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità per far sì che la banca trovi un modello di business sostenibile».

Il fondo da venti miliardi autorizzato dal governo verrà utilizzato per salvare altre banche italiane in difficoltà. Sarà sufficiente a mettere il sistema in sicurezza una volta per tutte?  

«La dimensione dell’intervento tiene conto della natura del problema e si basa sull’assunto che in alcuni altri casi un rafforzamento patrimoniale possa avvenire sul mercato. I problemi aperti nel sistema italiano non riguardano tutte le banche, ma un numero limitato di queste. Possono essere risolti e le soluzioni sono a portata di mano».

C’è chi sostiene ci vorrebbe ben altro, fino a 50 miliardi di euro.  

«Non tutto quanto è necessario per ricapitalizzare le banche deve venire dallo Stato. Persino nel caso di Mps ci potrà essere il contributo dei vecchi azionisti e di parte degli obbligazionisti subordinati».

La nuova direttiva sulle banche ha imposto per Mps l’applicazione del principio del burden sharing. Già nel 2013 Mario Draghi aveva avanzato dubbi sui rischi sistemici che possono essere innescati da banche delle dimensioni di Mps. Qual è la vostra posizione?  

«Il burden sharing era stato introdotto dalla Commissione già nel 2013. Nella sua lettera il presidente Draghi sostenne che nel caso di banche solvibili, che rispettano i requisiti prudenziali ma necessitano a titolo precauzionale di ulteriore capitale, la condivisione dei rischi può non essere appropriata in alcuni casi. La stessa Commissione precisò che vi sono alcune eccezioni al principio: tra queste proprio la presenza di rischi sistemici. La Commissione ha mostrato apertura anche nei confronti della possibilità di rimborsare gli investitori individuali che sono stati fuorviati nella scelta dell’investimento».

Alla fine le conseguenze della conversione delle obbligazioni subordinate paiono più che gestibili. Ha ragione chi dice che questo nuovo meccanismo è meglio di opachi salvataggi a pie’ di lista per il contribuente?  

«Il principio della condivisione dei rischi risponde a due esigenze: evitare che i costi dei salvataggi ricadano in misura eccessiva e impropria sui contribuenti e ridurre il cosiddetto “azzardo morale”, ossia l’incentivo che induce manager e investitori ad assumere rischi eccessivi nella consapevolezza che lo Stato interverrà comunque in caso di dissesto. Il principio va mantenuto, ma va anche regolato e gestito in modo da evitare rischi al sistema e oneri ingiusti per certe categorie di investitori. Mi riferisco in particolare a quelli al dettaglio e che non hanno – per impreparazione tecnica o mancanza di informazione – una conoscenza sufficiente dei rischi che corrono nel loro investimento. È fondamentale che strumenti rischiosi come i titoli subordinati siano acquistati solo da investitori consapevoli e in grado di sopportare eventuali perdite».

Che fare con le quattro banche in risoluzione – Etruria, BancaMarche, Carichieti e Cariferrara – se non saranno vendute entro il termine del 31 dicembre? Da tempo si parla di un interesse di Ubi, ma non si è ancora concretizzato.  

«Le modalità e i vincoli riguardanti la gestione delle quattro banche sono stati concordati fra il governo e la Commissione. Vi è la fondata speranza che un accordo per l’acquisizione di quelle banche possa avvenire presto, in tempo utile».

Oggi il governo ha formalmente venti miliardi di debito in più. Difficile che la Commissione se lo dimentichi quando tornerà sul dossier dei conti italiani. Sul tavolo c’è anche la possibilità di chiedere il sostegno dell’Europa e del fondo Esm. È una strada percorribile?  

«È una delle possibilità prevista dalle regole europee, ed ha implicazioni tecniche e politiche diverse rispetto alla strada scelta fin qui dal governo. La Spagna nel 2012 adottò quell’approccio ed ebbe buoni risultati, prevedendo la simultanea messa in sicurezza di diverse banche e margini sufficienti nell’ammontare dell’aiuto previsto. Dal nostro punto di vista più è alto il livello di stabilità garantito dalla strada scelta, meglio è».

Per risolvere radicalmente il problema dei crediti deteriorati non sarebbe utile una bad bank pubblica come si fece proprio nel 2012 in Spagna?

«La bad bank pubblica è una delle soluzioni possibili per affrontare situazioni problematiche: può essere attuata per una sola banca, per più banche – è stato il caso delle quattro già citate – oppure per gestire i problemi dell’intero sistema, come in Spagna».

Cosa risponde a chi dice che la vigilanza europea è stata particolarmente severa nei confronti di banche come Mps?  

«Negli ultimi tempi sento semmai la critica opposta, e cioè che non saremmo stati abbastanza decisi, a partire dalla valutazione iniziale che facemmo nel 2014. Le banche che individuammo come deboli a quel tempo sono le stesse che oggi evidenziano i maggiori problemi, a riprova della correttezza delle nostre analisi».

La politica monetaria della Bce resterà espansiva per tutto il 2017. Cosa rispondete ai banchieri che si lamentano per i margini sempre più ridotti? Dal vostro punto di vista può diventare un problema?  

«I margini di intermediazione si sono ridotti e un certo numero di banche sta soffrendo, è vero. Ma ci sono anche banche che resistono bene ai tassi bassi con costi bassi. Le banche devono continuare a lavorare per contenere i costi e promuovere l’efficienza. L’aumento dei tassi a lunga scadenza a livello globale può, in prospettiva, contribuire a mitigare il problema».

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