LA BAMBINA IN CAMICIA NERA

Quando l’incoscienza dei padri e dei nonni pretendono di condizionare i figli: una bambina alla cerimonia...

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Quando l’incoscienza dei padri e dei nonni pretendono di condizionare i figli: una bambina alla cerimonia di Giulino di Mezzegra.

Il 26 aprile scorso un quotidiano di grande tiratura nazionale ha riportato la cronaca della commemorazione  dell’uccisione di Mussolini a Giulino di Mezzegra a 65 anni dall’episodio. Nello spazio sopra l’articolo la fotografia di una bambina, dall’apparente età di 5/6 anni, in camicia nera con in testa un basco nero con gladio ed alloro, simbolo delle formazioni militari della c.d. repubblica sociale al servizio dei Tedeschi. Il titolo sintetizzava l’inopportunità della presenza in una manifestazione rievocativa di stampo ideologico: “Quella bambina in camicia nera costretta a subire una lezione di odio”.
Ho sempre ritenuto inopportuna la partecipazione a manifestazioni politiche di bambini ritenendola una vera e propria violenza sulla loro libera formazione culturale giungendo ad auspicare addirittura una legge che ne disponesse il divieto nel loro esclusivo interesse formativo che, nel caso che interessa, assume il carattere di una vera e propria coartazione. È vero che la libertà di pensiero e di manifestazione sono capisaldi della democrazia liberale garantiti dalla nostra Costituzione senza limiti di età ma è essenziale che la scelta di un orientamento politico debba essere libera e non già, come nel caso, una implicita violenza psicologica che la bambina, evidentemente, prende, nella sua innocenza, come un atteggiamento per adeguarsi al padre e al nonno che nella fotografia appaiono addirittura fieri ed orgogliosi di quella partecipazione.
L’episodio mi ha portato con la mente alla mia fanciullezza quando il sabato – definito all’epoca “sabato fascista” in antitesi a quello che era già il “sabato inglese” cui ci saremmo adeguati nel dopoguerra – andavo a scuola, per disposizione ministeriale, in divisa di Figlio della lupa (pantaloncini corti grigio-verde, camicia nera attraversata diagonalmente da due strisce bianche larghe fermate al centro da una grande “M” maiuscola di metallo e fez rigorosamente nero). Ne ero orgoglioso, non c’è che dire, perché mi sentivo parte attiva di quella generazione guerriera che il Regime progettava sul modello della grandezza dell’antica Roma. Il pomeriggio era poi dedicato ad attività sportive e addestrative dirette da caporioni con aspetto superbo, camicia nera, berretti con aquila gigante e stivaloni. Ho ricordato anche il mio atteggiamento la sera del 25 luglio del 1943 quando si era sparsa la notizia della caduta di Mussolini, mito della mia fanciullezza: mi rannicchiai in un angolo, corrucciato ed in preda a straziante malinconia e dovetti essere rincuorato dai miei genitori. Avevo solo 9 anni ed ero vissuto nell’ideale di grandezza dell’Italia fascista e nelle scuole campeggiava la foto del Duce che, per l’aspetto superbo, offuscava quella, di fianco,  del piccolo Re. Poi, con gli anni, ho avuto la possibilità di acquisire, in piena autonomia culturale, senza  condizionamenti genitoriali, le conoscenze sulle vicende storico-politiche che hanno interessato la vita del Paese dalla mia fanciullezza. Ho dovuto rivedere, con la maturità, quanto mi era stato imposto da quell’imprinting che il Regime attuava con una ficcante propaganda per omogeneizzare le menti.
Ecco perché, anche sulla scorta della mia esperienza personale, non ho mai condiviso la partecipazione di bambini a manifestazioni di carattere politico ritenendola una violenza psicologica auspicando di attivare un’azione a tutela della crescita sana e ordinata del minore. Se la prima educazione è affidata ai genitori questi devono saperla gestire non secondo i propri convincimenti ma rispettando l’autonomia mentale e culturale dei figli che non debbono essere considerati cloni da plasmare, quindi, a loro immagine e somiglianza, ma ricevere solo esempi ed indicazioni di massima nel rispetto del loro sviluppo psicologico e culturale.
Passi per l’indirizzo religioso (che è pur sempre spirituale) o sportivo (seguire la passione per la squadra del padre o del nonno, magari legata al territorio di origine per mantenere uno stretto legame con le proprie radici) ma non la politica perché questa deve essere una scelta razionale ed autonoma avendo riflessi nella vita futura, nella forma mentis, del come intendere la forma politico-istituzionale dello Stato.
Da un’osservazione sulla partecipazione di bambini a manifestazioni politiche o sindacali, osservazione, beninteso, non realizzata su basi scientifiche, posso tranquillamente affermare che, stranamente, il fenomeno è riscontrabile soprattutto in quelle organizzate dalle componenti estremistiche dello schieramento politico. Cioè di quegli  schieramenti che fanno maggiore leva sull’ideologia e che, tradizionalmente, utilizzano la piazza come arma di pressione per andare oltre ciò che rappresenta il quadro politico espresso da votazioni democratiche.
Non è certo uno studio sociologico che posso fare ma l’inopportunità per un bambino di partecipare ad una  manifestazione impegnativa come la commemorazione in argomento è palese. Nel caso specifico poi si tratta di  rievocare un personaggio con varie sfaccettature che appartiene alla recente storia d’Italia e che, inevitabilmente, è pervasa di passioni e di convincimenti non sempre razionali e critici ma d’impatto emotivo.
Comunque, giacché il danno per la bambina mi auguro sia solo all’inizio, se proprio chi ha potestà su di lei volesse insistere nel comportamento già manifestato, suggerirei di completare la formazione ampliando, nel suo interesse, gli orizzonti di conoscenza integrando la commemorazione (o la gita) a Giulino di Mezzegra con un itinerario di interesse storico per conoscere a fondo il personaggio commemorato. Senza però, con questo, condividere le motivazioni e le modalità dell’esecuzione del personaggio in questione.
Saltando l’attività svolta per giungere alle leve del potere trattandosi di un periodo – quello del dopoguerra della prima guerra mondiale – di problematica interpretazione e conoscenza, peraltro difficilmente comprensibile per un bambino, l’itinerario potrebbe essere articolato con una visita alle zone delle tante aree insalubri che si estendevano dal Veneto all’Emilia Romagna, al Tavoliere delle Puglie, dalla Piana del Sibari alle terre della Sila e del Neto, che costituirono la più grande opera di bonifica idraulica e di difesa del territorio di tutti i tempi. Fra le grandi opere del Regime potrebbe essere visitata, per economia di tempo, la sola pianura pontina che portò anche alla fondazione di nuove città laddove regnavano miseria e malaria. Oltre ad illustrare le notevoli iniziative di interesse sociale, andrebbe poi fatta una visita alle varie isole (Ustica, Ponza, Pantelleria, Ventotene, ecc.) dove venivano concentrate le persone dissenzienti, tralasciando i paesini della Basilicata di cui si sbizzarrì a scriverne un certo Carlo Levi, colà inviato per meditare in una villeggiatura forzata. Per concludere consiglierei, fra i tanti, un percorso trasversale  dell’Italia centrale, dalla Versilia all’Adriatico, a ridosso di quella che i Tedeschi, nel 1944, chiamarono linea Gotica per opporsi all’ avanzata delle truppe alleate, fra le quali anche i reparti del Regio Esercito italiano. È un itinerario d’ interesse anche paesaggistico che, partendo da Massa, sul Tirreno, giunge fino a Pesaro, sull’Adriatico, attraverso i paesi e i villaggi dell’Appennino tosco-emiliano. S’incontrano dei paesini nei quali, in genere, nella piazzetta della chiesa o del cimitero, ci sono delle lapidi con nomi, in particolare di bambini con a fianco indicata l’età, che nell’estate del 1944, ebbero la visita non gradita degli alleati del personaggio in questione che vi lasciarono il triste ricordo. Si tratta di Sant’Anna di Stazzema, Caprara, Casaglia, Cerpiano, San Giovanni, Valla, San Martino, fino a Marzabotto. A Sant’Anna di Stazzema le si potrà raccontare che c’era una certa famiglia Tucci, costituita da padre e madre con 9 figli dai 15 anni agli 8 mesi, che il 12 agosto di quel triste anno, fu sterminata perché, in particolare, il bambino di 8 mesi, costituiva un grave pericolo per la sicurezza della repubblica di cui era capo il personaggio
omaggiato e dei camerati suoi alleati dei quali auspicava la vittoria per un mondo, a suo dire, migliore. Nello stesso paese una ragazza allora sedicenne, Milena Bernabò, commise l’affronto di limitare l’opera purificatrice degli alleati e degli accoliti del personaggio affrontando il pericolo dell’incendio di una stalla per salvare tre bambini che vi erano stati rinchiusi da camicie nere e brune, tanto perché potessero arrostire ed evitare anche il fastidio della sepoltura. A Casaglia invece un’altra famiglia, Perini, con 7 figli piccoli, fu azzerata. Uno dei bambini che si era attaccato alla gamba del carnefice implorando pietà fu sparato al cranio evidentemente per non lasciare un orfano senza la guida e l’affetto dei genitori già trucidati.
Queste operazioni furono possibili perché il personaggio cui è stato reso omaggio, con la bambina in veste di rievocazione storica, non volle staccarsi dai suoi alleati che combattevano una guerra di aggressione e di  sopraffazione negando i principi di libertà e democrazia di cui, invece, godono la bambina della fotografia,
i suoi genitori ed i parenti tutti.
A questo punto non credo sia il caso di portarsi all’estero per una visita ad Oswiecim in Polonia (i Tedeschi la chiamarono Auschwitz) e spiegare all’inconsapevole bambina chi era il dottor Mengele che s’interessava in particolare di bambini gemelli, usandoli per esperimenti pseudo-scientifici, inoculando germi e virus come si fa con le cavie nei laboratori di ricerca e compararne gli effetti. Sarebbe interessante chiedere al nonno e al padre della bambina se avessero offerto a quel medico la propria bambina, completa di divisa, per sottoporla agli esperimenti nel nobile intento di agevolare il progresso della scienza.
Si tratterebbe comunque di viaggi istruttivi direttamente connessi con le motivazioni che hanno portato la bambina a Giulino di Mezzegra in un’atmosfera di rigurgito di nostalgia.
Per concludere, forse senza bisogno di fare tutti i viaggi suggeriti, basterebbe raccontare alla bambina come e perché il personaggio commemorato si trovasse a Giulino di Mezzegra, come ci era arrivato, come ed in quale abbigliamento era stato rintracciato dopo aver blaterato, per un ventennio, retorica vuota ed insulsa da un balcone di Roma: era stato catturato da un anonimo partigiano con indosso un cappottone militare tedesco, evidentemente in segno di rispetto per quelli che erano da tempo i suoi padroni, lui che aveva fatto scrivere sui muri dei paesi d’Italia frasi reboanti quali quella che più gli si addiceva in quel frangente: “Meglio un giorno da leone che cento da pecora”. Forse quello era il primo dei cento giorni da pecora che si apprestava a vivere, solo che non gli fu consentito continuare!
Comunque, oggi come oggi, mi viene da fare una sola considerazione: povera bambina, dove sei capitata!

Giuseppe Vollono

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