Giovanni Maltese : un illustre ischitano di Foria

«Maltese? Ma chi era costui?» Anche se per molti suoi concittadini l’illustre artista foriano è...

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«Maltese? Ma chi era costui?» Anche se per molti suoi concittadini l’illustre artista foriano è un Carneade di manzoniana memoria, si può affermare, che avendo la sua fama travalicato i confini dell’angusto scoglio isolano e raggiunto, attraverso le sue Opere artistiche, il cuore dell’Europa trovando accoglienza addirittura al Museo del Louvre, egli sia stato un figlio prediletto di quella Forio che, nel corso dei secoli, ha dato i natali a Uomini di alta levatura morale e culturale.

Giovanni nacque a Forio da famiglia di contadini nel 1852. Presto rimase orfano di madre, e quando il padre convolò a nuove nozze, fu affidato ad alcuni zii, i quali lo avviarono alla vita dei campi.

Secondo il poeta Giovanni Verde, è in questo periodo che il giovane Maltese consolidò il suo humus artistico. All’età di sedici anni costruiva sculture in legno, cosa che non passò inosservata al sindaco dell’epoca Orazio Patalano, che, attraverso la conoscenza di un dirigente della prefettura, Giacomo Genovino, ottenne per lui una borsa di studio di trenta lire mensili, e questo permise al talentuoso Giovanni di iscriversi all’Accademia delle Belle Arti di Napoli. Conseguito il diploma, lo scultore andò a bottega, presso un atelier di Roma, diretto da Giulio Monteverde, già noto al grande pubblico per le numerose opere monumentali come il Bellini a Catania, il Colombo giovinetto, a Genova, l’Angelo della Resurrezione a Staglieno, e, infine, Edoardo Jenner inocula il vaccino del vaiolo al figlio. Da questi fu inviato a decorare il celebre castello di Chenonceau in Francia. Per il Maltese non fu una felice esperienza. Screzi con il direttore dei lavori convinsero lo scultore a trasferirsi a Parigi, ove visse per circa un anno, sostenendosi con i suoi lavori a carboncino, che eseguiva come artista di strada. Con il terremoto del 28 luglio 1883, che devastò Casamicciola Terme, ma anche una rilevante zona di Forio, il Maltese perse tutto quello che aveva, (fratello, nipote e casa) riuscendo per sua opera a salvare la cognata, tirandola fuori dalle macerie dopo cinque giorni. Il trauma fu così forte che decise di non inseguire più la fama nel mondo artistico.

Il Torrione, la maggiore delle torri di Forio, divenne, per oltre un trentennio, la sua dimora. E’ qui che conobbe la pittrice inglese Fanny Jane Fayrer, che in seguito divenne sua moglie.

Per Giovanni fu come se il sole sorgesse dal mare, da quell’occidente che, in passato, era stata la via di accesso dei pirati, le cui incursioni avevano reso necessaria l’insediamento della sua attuale dimora. Nel Torrione il Maltese produsse le sue opere più importanti di cui sono ancora ivi conservati i calchi in gesso. Iniziò inoltre, a scrivere alcune opere in dialetto foriano.

I rapporti tra l’artista e alcuni notabili foriani si erano inaspriti a causa del mancato finanziamento, da parte dell’amministrazione, della scuola di disegno “Giotto”. L’eclettico verista visse in malo modo l’accaduto e per vendetta pubblicò un famoso libello anonimo dal titolo “Cerrenne” ovvero “Vagliando”. Questo libro ebbe un notevole successo, e si dice che alcuni versi sarcastici e spregiativi verso i politici corrotti, fossero recitati a memoria dal popolo, offuscando il prestigio degli amministratori dell’epoca. Il poeta Luigi Patalano, amico ed erede del patrimonio culturale del Maltese, rivelò a Giovanni Verde, uno degli allievi prediletti dello scultore, divenuto poi il primo Direttore del Museo Civico Giovanni Maltese, che il misterioso autore di “Cerrenne” fosse stato appunto il Maestro. Tra le sue opere esposte al Museo, ricordiamo, per il disegno a carboncino, quello di Benedetto Croce, che ebbe modo di conoscere frequentando lo jet set napoletano; due suoi autoritratti; due raffiguranti la moglie Fanny; quello del precursore dell’omeopatia moderna, il medico foriano Tommaso Cigliano e alcuni particolari del gruppo del Laocoonte. E’ possibile deliziare la mente osservando espressive sculture, come l’autobiografa statua del Naufrago, l’uomo salvato dalle acque, lacero nel vestito, il volto contratto in una smorfia di dolore e di terrore, l’unica che arreca la sua firma, sia scritta, sia trasmettente il suo status inconscio della doppia sventura per la tragica dipartita della sua famiglia. Tra le altre opere il plastico gruppo del “Naufragio di Agrippina” dove sul volto dei protagonisti è riprodotta con forte espressività la tragedia incombente, molto vicina nell’ispirazione ai classici del Canova. Euridice e Orfeo, Amore e Psiche hanno sicuramente influito a dettare la linea di pensiero per la realizzazione di questo gruppo “pompeiano”. Sono molto apprezzati gli occhi stupiti del contadino in gesso e in bronzo, la leggiadria delle forme e lo sguardo che si perde lontano, espressi nella “Graziella” la giovane procidana che muore di mal d’amore nell’attesa del suo innamorato, ispirata all’omonimo romanzo  autobiografico di Alphonse Lamartine.

Oltre al gruppo di poesie satiriche”Cerrenne”che il “Pasquino” foriano, fustigatore dei costumi e del malgoverno locale, diede alle stampe nel 1892, un altro lavoro poetico del poliedrico artista fu la composizione dei sonetti di “Ncrocchie” i capannelli di persone di cui captava gli umori, traducendoli in rima. Di questo volume fa parte la seguente poesia dedicata a Fanny.

Quanne sto nnènt’a ste capìgghie d’ore
– e ngè lu ventarié che ghie sceléie -,
cu lu nése pe ghièri’, ève cuppéie
nun sòcce mènghe dì che bèll’andòre!
E quanne ghiuócchie tuóie nda lu miéie
– còmm’a n’ape nfezzata nda nu fióre –
lu curunié se zuca de stu còre,
ncalametéte, allór, ‘un pepetéie.
Pu, si stu muss’a’ pemmene de ròse,
alliér’ o mmenenét’o ndefferènte,
se vota mère me pe dì qua còse,
Tanne me sènghe mmócche le fragniénte
e – si nun fusse tènte pavuróse –
te mullarrì le vés’a ciént’a ciénte.
Quando sto innanzi ai tuoi capelli d’oro
– e c’è un soffio di vento che li spettina -,
col naso in aria vado raccogliendo
non so neanche dir che bell’odore!
E quando gli occhi tuoi fissi nei miei,
– come ape che in un fiore si configge -,
mi suggono il più tenero del cuore
ammaliato allor non apro bocca.
Se poi le labbra tue, foglie di rosa
allegre o invelenite o indifferenti,
per dire qualche cosa, mi protendi
Allora sento in bocca un tale eccitamento
– che se non fossi tanto timorosa –
ti lancerei i baci a cento a cento.

Luigi Castaldi

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