Usa e l’Election Day dell’8 novembre: il camaleonte repubblicano BerluTrump

Il teatrante Donald Trump, per noi italiani cresciuti alla scuola di Berlusconi, non ci appare...

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Il teatrante Donald Trump, per noi italiani cresciuti alla scuola di Berlusconi, non ci appare poi tanto alieno anzi, a noi appare come un camaleonte che ben conosciamo. Si adatta a tutte le situazioni e ne fagocita pensieri, ideali ed aspettative per cui, come il nostrano si faceva capostazione, panettiere, finanche spazzino o texano o russo col colbacco o ….. e ogni volta si faceva panettiere, operaio, impiegato, diplomatico, studente discolo che fa le corna alla fotografia di gruppo ecc ecc, e di tutti diceva non solo di ben conoscere le esigenze ma di appoggiarle ritenendole più che giuste e promettendo di provvedere a sistemare ogni cosa, così Trump ha giocato finanche con il dna dei repubblicani facendolo apparire ANCHE l’opposto di quello che è, o era, perché ormai le giravolte sono così tante che cominciano a soffrire di una crisi d’identità ritrovandosi con un miliardario che passa dalla high class alla working class nel giro di un giorno con la stessa velocità che si impiega a scendere da uno yacht in perfetta tenuta nautica per montare su un monopattino, zaino in spalla. éerché? A che scopo? Semplice! Il tutto unicamente perché, Trump come il nostro, ben sa cosa funziona sui media e sui social network che usa come chiave d’apertura di giornali e tv che, come lui ben sa, da lì attingono input per fare notizia e se è spazzatura, meglio

Sul camaleonte d’oltre oceano si cimenta anche Molinari che, nell’articolo apparso oggi su la Stampa, ne analizza salti e capovolte tratteggiandone un chiaro identikit.

Usa, cambia il rapporto col potere MAURIZIO MOLINARI

La Convention di Cleveland che ha assegnato a Donald J. Trump la nomination per la Casa Bianca è un evento spartiacque nella politica americana: è cambiata la natura del partito repubblicano, la favorita Hillary Clinton si trova davanti ad un finale anomalo di campagna e la nazione si interroga se è arrivato il momento di affidare la presidenza ad un candidato di brusca rottura con l’establishment.

Il «Grand Old Party» ha cambiato identità perché durante i lavori nella Quickens Loans Arena «l’opposizione ad aborto e diritti gay è stata sostituita dalla difesa di disoccupati, madri lavoratrici e poliziotti», riassume uno dei più stretti collaboratori di Trump. Dopo aver sconfitto i candidati del vecchio partito repubblicano nelle primarie, Trump ha pronunciato un discorso di 76 minuti per rifondarlo. Assegnandogli altre priorità: risollevare i consumi del ceto medio riscrivendo gli accordi sul commercio, proteggere le famiglie imponendo «legge ed ordine», restringere l’immigrazione per favorire i bassi redditi. Gli eccessi verbali e politici di Trump sono lo strumento con cui punta a raggiungere, in maniera assai spregiudicata, quel 40 per cento di cittadini che in genere non vota perché si sente ai margini della vita pubblica. Per capire da dove nasce il «Manifesto di Trump» bisogna ascoltare le parole della figlia Ivanka.

Bisogna ascoltarla quando lo descrive «campione della gente comune», indicando in particolare una svolta nell’approccio ai diritti delle donne: «Bisogna proteggere il diritto al lavoro della madri». Ovvero: ad essere discriminate di più – sulla base delle differenze di salario – sono le donne con figli e dunque servono più asili e sale giochi per pari opportunità.

Se tutto ciò prospetta alla favorita Hillary Clinton un finale anomalo di campagna elettorale è perché il clima in cui è immersa l’America è segnato dalla paura: instabilità e insicurezza dovute a impoverimento, violenze inter-razziali, terrorismo e smacchi internazionali. «Tutto ciò ricorda il 1980» osserva Michael Barone, il più stimato studioso di elezioni presidenziali, riferendosi a quanto avvenne quando in una nazione in preda alla crisi degli ostaggi a Teheran ed al caro-benzina l’amministrazione democratica di Jimmy Carter venne travolta dal repubblicano Ronald Reagan. Rispetto ad allora Hillary è sicuramente più forte di Carter perché le minoranze – afroamericani, ispanici, asiatici e originari del Pacifico – pesano in misura senza precedenti nell’assegnazione degli Stati decisivi e considerano Trump una sorta di candidato dell’Apocalisse. Ma più recenti dati etnici sulle contee pro-Trump suggeriscono che sta avvenendo qualcosa: prende oltre il 50 per cento dei voti dove prevalgono gli scozzesi-irlandesi nella regione degli Appalachi – dal Nord dell’Alabama all’Ovest della Pennsylvania – e fra gli italiani in un raggio di 160 km da New York City, mentre perde fra tedeschi e olandesi nelle città del Mid-West. Ciò significa che può essere la genesi di una coalizione protestataria, fondata sui ceti disagiati ed avversata dai redditi più alti. La spaccatura non è più su fede o interventi militari all’estero ma sulla povertà. Il 75 per cento di gradimento registrato dai «focus groups» tv dopo il discorso di Cleveland è un campanello d’allarme per Hillary che non a caso ha reagito scegliendo come vice il senatore Tim Kaine: volto del ceto medio bianco della Virginia – Stato conservatore conquistato da Obama nel 2008 e nel 2012 – che parla spagnolo come l’inglese e può dunque rivolgersi tanto ai bianchi degli Appalachi che alle minoranze inquiete. La Convention democratica di Philadelphia che si apre domani vedrà Hillary esaltare proprio l’identità dell’America come nazione mosaico di identità diverse al fine di travolgere la rivolta di Trump.

E’ una partita aperta. Non solo perché gli Stati in bilico sono gli stessi delle ultime due elezioni presidenziali – Ohio, Pennsylvania, Florida, Virginia e North Carolina – ma in ragione del fatto che il populismo non è estraneo alla tradizione politica americana. Nel 1829 Andrew Jackson fu il primo a vincere come «campione del popolo» avversato dalle élites del Nord-Est ed ora Trump pone l’interrogativo se è arrivato il momento di eleggere alla Casa Bianca un candidato di drammatica rottura. In realtà anche Hillary esprime discontinuità – essendo la prima donna a poter diventare Presidente – ed in ultima istanza dunque l’Election Day dell’8 novembre sarà deciso da quale tipo di svolta gli americani sceglieranno. Comunque vada Donald «il gladiatore», come lo definiscono i suoi fan, avrà ridisegnato il rapporto fra cittadini e potere politico.

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