Il paradosso del M5S: vola nei sondaggi nazionali e a livello locale crolla

E’ il paradosso di un partito che vola nei sondaggi nazionali e a livello locale...

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E’ il paradosso di un partito che vola nei sondaggi nazionali e a livello locale crolla.

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ROMA – È il paradosso del partito che vola nei sondaggi nazionali e crolla a livello locale. La sintesi sul M5S è tutta qui. E in fondo, come sarebbe andata a finire, l’aveva messa in musica lo stesso Beppe Grillo: «Tanto non andiamo nemmeno ai ballottaggi…» cantava ironico e profetico il comico, venerdì, al comizio conclusivo di queste amministrative a bassa intensità. L’ultimo giro di blues è stato in piazza Matteotti, nella sua Genova. Poca gente ad applaudirlo, ma in verità poca gente si è vista in generale ai comizi di tutti in candidati.

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Genova è uno dei due simboli del flop del M5S, la città natìa e dove vive Grillo, che agli amici in questi mesi ha sempre confidato, un po’ scherzando un po’ no, di sperare di perdere per non ritrovarsi le proteste sotto la villa di Sant’Ilario. L’altro simbolo è Parma, dove il diseredato Federico Pizzarotti si è preso la sua vendetta: il sindaco uscente, l’ex dissidente numero 1 guarda dalla vetta in giù disgregarsi quello che resta del M5S cittadino. Poi c’è Palermo, il capoluogo perduto di una regione che resta ancora il sogno segreto di questo 2017 per i 5 Stelle, il trampolino da cui lanciarsi alla conquista del governo del Paese. La meta che sembrava così vicina però è ancora lontana. Prima bisognerà raccogliere i cocci dei territori.

Il quadro è limpido. Nelle grandi città il M5S non agguanta il ballottaggio da nessuna parte. In alcuni casi non è nemmeno terzo o quarto. Neanche a Taranto, la città dell’Ilva, dell’ambiente ammalato, i grillini hanno convinto i cittadini. A Genova e a Palermo si è compiuto il suicidio perfetto: prologhi che erano già epiloghi e che raccontavano il fallimento di un Movimento con pulsioni autodistruttive, incapace di radicarsi con una classe dirigente locale, preda di lotte tribali interne, tra candidati e capicorrente che si combattono a colpi di veleni e dossier. Genova, dove la diaspora ha prodotto tre candidati di matrice grillina, è stata la città del golpe online, contro cui si sono infranti i sogni dei molti che credevano nella democrazia diretta sul web: spazzata via dalla decisione di Grillo di sostituire Marika Cassimatis, legittima vincitrice delle primarie online, con Luca Pirondini, capace di raccogliere, secondo gli exit poll, solo il 19-23% di consensi. A Palermo il calvario dello scandalo firme false, di tre deputati di primo piano indagati e le faide tra bande opposte, è culminato nel gioco autolesionistico degli audio rubati per indebolire il candidato Ugo Forello, fermo al 17-22%. Lo schiaffo più forte però arriva da Parma dove Pizzarotti, lasciando Grillo e Casaleggio al loro destino, con un partito cucito sulla sua amministrazione ha ridotto il M5S a numeri da partitino marginale, tra 2 e 4%.

Ai vertici, però, i 5 Stelle ostentano una certa tranquillità che stona con la débâcle fotografata a urne chiuse. «Ce lo aspettavamo» si ripetono al telefono Grillo e lo staff della Casaleggio. Già alle nove di sera ai parlamentari arriva l’ordine di tacere e di evitare commenti. Qualcuno però ha voglia di parlare e sotto anonimato dice «non si può fare finta di nulla», che dopo «la figuraccia di Virginia Raggi, cosa potevamo aspettarci?». Già: Roma è lì a ricordare impietosamente un anno di caos amministrativo. E il pasticcio di piazza San Carlo, il dramma dei feriti di Torino avvenuto pochi giorni fa, potrebbe non aver aiutato. Ma al di là di un possibile effetto-Raggi, nella caccia al colpevole il deputato dice di essere in buona compagnia quando afferma che «c’è qualcuno tra noi che si atteggia a statista e aveva la responsabilità degli enti locali». Sembrano parole rubate di bocca a Pizzarotti quando rivendicava la sua esperienza contro Luigi Di Maio. E al futuro candidato premier si riferiscono anche gli scontenti di oggi. Ma citano anche Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede, fedelissimi del vicepresidente della Camera e titolari di un ruolo sui territori dove la ricetta pentastellata non ha attratto.

In questa distanza si misura il fallimento del M5S, si coglie la sua forza di partito di opinione nazionale e si comprendono i motivi di tanta insistenza sulla necessità di inserire il voto disgiunto nella legge elettorale. È una questione di sopravvivenza per un movimento che era stato creato attorno ai meet-up, motori di passionali campagne politiche spesso nate su problemi locali, ma adesso ragiona solo puntando a Palazzo Chigi.

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