Russiagate: l’Fbi indaga sui legami tra Putin e il presidente Usa tra spie e ricatti a luci rosse

L’Fbi conferma l’esistenza di indagini sui “legami tra lo staff di Trump e la Russia”...

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L’Fbi conferma l’esistenza di indagini sui “legami tra lo staff di Trump e la Russia” e nega che Obama abbia ordinato intercettazioni sul tycoon.

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Come in una rissa da saloon dei vecchi film western, nessuno esce indenne dall’audizione alla commissione Servizi di Intelligence della Camera Usa, con il capo dell’Fbi James Comey e l’ammiraglio Mike Rogers, direttore Nsa. Il presidente Donald Trump incassa due durissimi uppercut, quando Comey conferma che l’Fbi sta indagando sulle «connections» tra la campagna repubblicana e fonti russe, e poi nega recisamente che ci sia del vero nelle accuse mosse a Obama di intercettazioni illegali.

Ma i democratici non piazzano il colpo del ko, perché i repubblicani si schierano come guardie del corpo fedeli della Casa Bianca, in una buona prova di squadra. Trump detta la linea di buon mattino via Twitter, concentrandosi sui «leaks», le soffiate ai giornalisti, e non sull’oscura manovra che dal Cremlino ha infiltrato il duello con Hillary Clinton.

Quanto a Comey, i suoi sforzi per tornare uomo al di sopra delle parti, carisma perduto con le rivelazioni premature sull’inchiesta contro le mail private della Clinton poi finita in nulla, hanno messo a segno qualche punto. Dando in pratica del bugiardo, o almeno del millantatore, al presidente, Comey recupera favori tra i democratici, che non lo incal zano su un tema cruciale.

Perché mai il direttore dell’Fbi ha richiesto esplicita autorizzazione al Dipartimento della Giustizia per rivelare le indagini in corso sui contatti tra staff di Trump e russi, quando, in piena campagna elettorale, ha reso pubblica l’inchiesta contro la Clinton, senza peritarsi di chiedere analogo permesso all’allora ministro della Giustizia democratica Lynch? Pesi diversi che – a lungo, in una saga che non sarà breve o indolore – torneranno a creargli guai. Tanto più che il direttore ammette: non è finita, «i russi hanno avuto successo e torneranno a ripetere la manovra nel 2018, e forse nel 2020», elezioni di midterm e presidenziali. Qui i democratici avrebbero potuto incalzarlo, chiedendogli conto del passo doppio Hillary-Donald, ma hanno preferito non antagonizzare un interlocutore che sperano infligga altri colpi a Trump. Malinconicamente, sono gli sconfitti della Clinton ad attaccare, via social media, Comey. Tace Obama, cui nessuno chiede ancora conto del silenzio impaurito: sapeva dall’estate dell’inchiesta Fbi su Trump e la Russia, ma tacque «per non sembrare imparziale».

L’ammiraglio Rogers lancia un messaggio agli europei, «Quel che i russi hanno fatto nel 2016 da noi, fanno ora in Europa», usando disinformazione, leaks, hackeraggio e guerra informatica nelle elezioni in Francia e Germania, contro i candidati più anti Putin, Merkel e Macron, e a favore di candidati ritenuti più filo russi, Schulz, Fillon, Le Pen. Con grinta il presidente del Comitato, il repubblicano Nunes, ha seguito l’ordine di scuderia, insinuare – senza prove – che i pirati informatici di Putin abbiano gonfiato i voti democratici. Stato per stato, Nunes chiede conferma dei brogli, per sentirsi rispondere sempre di no. Poco importa, la domanda farà schiuma e il 37% degli americani (punto basso, finora della presidenza) che appoggia Trump sarà impressionato.

Dal Cremlino, Vladimir Putin può guardare il pestaggio al Saloon America con soddisfazione. Sia Comey che Rogers confermano che l’operazione dell’ex ufficiale dello spionaggio Kgb, condotta via Wikileaks (malgrado gli uomini di Assange siano lieti: «Nessun filo diretto tra noi e il Cremlino»), è stata la «manovra coperta più efficace di sempre», seminando «caos e discordia» negli Usa. Solo osservatori ingenui, o in malafede, potevano credere che Trump alla Casa Bianca avrebbe stretto un patto col presidente russo, forse temendo i famosi video che lo riprendono con belle ragazze russe, «le prostitute migliori al mondo» secondo Putin, di cui fonti di intelligence insistono a parlare. Non era questo il piano, Mosca voleva seminare zizzania e c’è riuscita: ora tocca a Parigi e Berlino, vedremo quando, e come, a Roma. La testa già caduta dell’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn, troppo avventato nel fidarsi dei russi, il ministro della Giustizia Jeff Sessions costretto a autosospendersi dall’inchiesta (facendo infuriare Trump) per non aver rivelato all’Fbi e al Senato, della sua personale Russian Connection, sono solo le prime vittime. Altre seguiranno.

Trump twitta astuto «non c’è prova di contatti tra Presidente e i russi», ma Fbi, Nsa e Cia – che la Casa Bianca ha, incautamente, paragonato «ai nazisti» e alla «caccia alle streghe» – seguono altre piste, cercando contatti tra collaboratori di Trump e russi: ieri, in Ucraina, si annunciavano rivelazioni contro Paul Manafort, ex capo dello staff trumpiano. La vittoria di Putin è la sfiducia che paralizza l’America, dove aumentano gli elettori che considerano Trump «presidente illegale», tra i giovani sotto i 30 anni il 57%. Questa discordia voleva seminare e la messe è alta.

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