Ex coniuge, approvata alla Camera nuova norma per il mantenimento. Fondo di solidarietà per quello bisognoso

Nel 2018 una norma aveva previsto fino a un anno o una multa fino a...

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Nel 2018 una norma aveva previsto fino a un anno o una multa fino a 1.032 euro per l’ex coniuge che si sottrae all’obbligo.

La questione ci è stata posta da una locale lettrice con figlio a carico che lamentava di non riuscire ad avere versati gli alimenti dall’ex coniuge che a sua volta motivava affermando che per vivere doveva ricorrere alla Caritas. Il suggerimento in questi casi è sempre quello, in prima battuta e se si ha internet, di fare una ricerca specifica su pagine di studi legali o similari. Però è anche vero che non è agevole comprender il linguaggio giuridico considerato che alla scuola dell’obbligo italiana non ci viene insegnato nulla in materia di Diritti e Doveri. E la nuova introduzione dell’Educazione Civica, già approvata alla Camera, se insegnata da un docente non laureato in legge sarà di tutta evidenza in tal senso inconcludente.

Pertanto si è riassunta una ricerca per gradi che a questo punto si è ritenuto mettere sul nostro sito affinché possa essere di indicazione generale per tutti compresa la nostra lettrice.

Il 6 aprile è stato approvato nel codice penale il decreto n.21 del 2018 che con l’articolo 570 bis prevede il carcere fino a un anno o una multa fino a 1.032 euro per l’ex coniuge che si sottrae all’obbligo di pagare quanto pattuito in sede di separazione o divorzio in favore dell’altro coniuge e dei figli.

La nuova disposizione aveva l’intento di fare chiarezza rispetto ed ampliare le tutele rispetto a quelle garantite dall’articolo 570 (‘Violazione degli obblighi di assistenza familiare’) che prevede le stesse pene ma solo per chi “fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa”.

Fino ad oggi pena solo per chi faceva mancare l’essenziale ai figli – Per l’avvocato Giuseppe Mauro, specializzato in diritto di famiglia, la disposizione attuativa del ministero della Giustizia, firmata dal ministro Andrea Orlando, “amplia la tutela legale che il codice penale offre in ambito familiare, sia da un punto di vista soggettivo (tutela estesa dai soli discendenti anche agli ex coniugi) che oggettivo (il reato verrà commesso non solo da chi faccia mancare i mezzi di sussistenza, ma anche da chi ometta di versare l’assegno di mantenimento)”. “L’art. 570 limitava la pena al genitore che faceva mancare i mezzi di sussistenza ai propri discendenti, generalmente ai propri figli. Ora quelle pene, come recita lo stesso articolo 570 bis, si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”. Da ora in poi conseguenze anche per chi versa solo parte del dovuto anche se ha mezzi – “Sino ad oggi”, chiarisce l’avvocato, “commetteva reato solamente chi faceva mancare ai figli i mezzi di sussistenza (ovvero l’essenziale per vivere: cibo, vestiario e casa) ma non anche chi, ad esempio, a fronte di un assegno di mantenimento di 1000 euro, decideva arbitrariamente di versarne 500“. “Ora non sarà più così e la reclusione (quantomeno sulla carta) sarà prevista anche a carico di chi ometterà di versare – ai figli o all’ex coniuge – l’assegno stabilito. In sostanza ogni inosservanza dei propri impegni diventa sempre più insidiosa se non motivata con estrema precisione in sede di giudizio. È vero, infatti, che alcuni padri si sono ‘salvati’ dimostrando la loro ‘effettiva incapacità economica‘, ma questa è una prova molto difficile che a nulla serve rispetto ad un grave stato di necessità”, conclude Mauro.

Il Ministero della Giustizia ha chiarito che il 570bis si applica anche alle coppie di genitori che hanno sottoscritto un’unione civile. A marzo di quest’anno il Tribunale di Pordenone ha riconosciuto un assegno di mantenimento pari a 350 euro alla coniuge “più debole”. La sentenza, spiega l’avvocatessa Maria Antonia Pili, presidente di Aiaf (Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori Fvg), “deriva dall’applicazione del cosiddetto divorzio diretto, che invece non è ancora regolamentato in Italia per le coppie eterosessuali”. Le due donne, prosegue il legale, vivevano a Pordenone e “già convivevano stabilmente more uxorio dal 2013. Avevano potuto perfezionare la loro unione solo nel 2016, dopo l’intervento della legge sulla Unione Civile

(L’unione civile è il termine con cui nell’ordinamento italiano si indica l’istituto giuridico di diritto pubblico comportante il riconoscimento giuridico della coppia formata da persone dello stesso sesso, finalizzato a stabilirne diritti e doveri reciproci. Tale istituto estende alle coppie omosessuali gran parte dei diritti e dei doveri previsti per il matrimonio, incidendo sullo stato civile della persona. L’istituto, in vigore dal 5 giugno 2016, è stato introdotto dall’art 1, commi 1-35, della Legge 20 maggio 2016, n. 76 (cosiddetta legge Cirinnà), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana il 21 maggio 2016 (GU Serie Generale n.118 del 21-5-2016) e denominata “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”. Prende il nome da Monica Cirinnà, senatrice del Partito Democratico, promotrice e prima firmataria della norma)

– spiega ancora l’avv.ssa Pili – detta norma equipara pressoché in toto l’unione civile al matrimonio, ma consente di accedere direttamente al divorzio senza passare per la fase propedeutica della separazione e non prevede, per gli uniti civilmente, l’obbligo di fedeltà facendo così venir meno, sul punto, anche l’istituto dell’addebito della separazione“. Una spiegazione politica di questa disparità normativa e stavolta a sfavore delle coppie eterosessuali, non si è trovata.

Fino ad oggi pena solo per chi faceva mancare l’essenziale ai figli – Per l’avvocato Giuseppe Mauro, specializzato in diritto di famiglia, la disposizione attuativa del Ministero della Giustizia, firmata dal ministro Andrea Orlando, “amplia la tutela legale che il codice penale offre in ambito familiare, sia da un punto di vista soggettivo (tutela estesa dai soli discendenti anche agli ex coniugi) che oggettivo (il reato verrà commesso non solo da chi faccia mancare i mezzi di sussistenza, ma anche da chi ometta di versare l’assegno di mantenimento)”. “L’art. 570 limitava la pena al genitore che faceva mancare i mezzi di sussistenza ai propri discendenti, generalmente ai propri figli. Ora quelle pene, come recita lo stesso articolo 570 bis, si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”. Da ora in poi conseguenze anche per chi versa solo parte del dovuto anche se ha mezzi – “Sino ad oggi”, chiarisce l’avvocato, “commetteva reato solamente chi faceva mancare ai figli i mezzi di sussistenza (ovvero l’essenziale per vivere: cibo, vestiario e casa) ma non anche chi, ad esempio, a fronte di un assegno di mantenimento di 1000 euro, decideva arbitrariamente di versarne 500“. “Ora non sarà più così e la reclusione (quantomeno sulla carta) sarà prevista anche a carico di chi ometterà di versare – ai figli o all’ex coniuge – l’assegno stabilito. In sostanza ogni inosservanza dei propri impegni diventa sempre più insidiosa se non motivata con estrema precisione in sede di giudizio. È vero, infatti, che alcuni padri si sono ‘salvati’ dimostrando la loro ‘effettiva incapacità economica‘, ma questa è una prova molto difficile che a nulla serve rispetto ad un grave stato di necessità”, conclude Mauro. Molto critico invece Gassani. “Sul tema delle spese straordinarie mi auguro che il legislatore chiarisca. Sono spesso più alte di quelle ordinarie, ma nella norma, che è molto sintetica e si compone di quattro righe, non se ne fa cenno.

Nel frattempo la Giurisprudenza ha iniziato a pronunciarsi dopo l’approvazione dell’arti. 570bis: Il mantenimento per i figli stabilito in sentenza di divorzio prescinde dalla dimostrazione dello stato di bisogno e va comunque versato. Tribunale di Verona, sentenza 1° marzo 2019; L’art. 570 bis non esclude affatto la punibilità della condotta di chi non mantiene i figli nati fuori dal matrimonio. Cass. del 28 febbraio 2019 n. 5975; Provvedere all’acquisto di alcuni generi alimentari per alcuni mesi dopo la separazione non significa provvedere ai figli. Cass. Pen. del 22 febbraio 2019 n. 8047; Non rileva che la figlia non voglia frequentare il padre, il mantenimento le è comunque dovuto. Cass. del 30 gennaio 2019 n. 2735; Non c’è reato se il mantenimento non versato dal genitore è nei confronti di figlio maggiorenne e abile al lavoro. Cass. del 11 gennaio 2019 n. 1342;

In merito alle spese straordinarie, la Cassazione con sentenza del 3 febbraio 2016 n°2127, ha dato ragione ad una madre e, quindi, condannando il padre al rimborso delle spese straordinarie sostenute per i figli sulla base del seguente indirizzo giurisprudenziale: “… non esiste a carico del coniuge affidatario dei figli un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro coniuge in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie, nei limiti in cui esse non implichino decisioni di maggior interesse per i figli”. Nell’ipotesi di rifiuto il giudice dovrà soltanto “… verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità derivante ai figli e della sostenibilità della spesa stessa, rapportata alle condizioni economiche dei genitori”. Nel caso in esame la Corte ha statuito che il padre dovesse rimborsare il 50% delle spese sostenute dalla madre per la retta dell’asilo privato delle figlie, essendo stata la decisione assunta concordemente da entrambi quando erano ancora conviventi, senza che fosse necessario un nuovo accordo dopo l’autorizzazione a vivere separati.

Una ordinanza della Cassazione, n. 16138/2019, ha implicitamente legittimato il dovuto pagamento anche delle spese straordinarie rigettando l’interpretazione soggettiva di un padre ed ex marito che ritiene di assolvere il proprio dovere di mantenimento nei confronti del figlio, pagando il mutuo della casa in cui vive. L’accollo del mutuo infatti non equivale a corrispondere l’assegno di mantenimento. Configura quindi reato tale condotta, anche perché l’imputato non ha provato la sua impossibilità a provvedere a dette obbligazioni. La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso dell’imputato inammissibile. La Corte d’Appello aveva infatti “dato conto della ritenuta attendibilità e credibilità della persona offesa, evidenziando, altresì, come non sussistano ragioni per sostenere che la stessa abbia dichiarato il falso circa il mancato pagamento delle spese straordinarie essendo, invece, verosimile che l’imputato abbia trascurato di fare fronte a dette spese analogamente a quanto fatto per l’assegno di mantenimento.” La Corte d’Appello ha pertanto ritenuto infondate le doglianze relativa al pagamento del mutuo, precisando come l’accollo di queste spese non può considerarsi come pagamento del mantenimento in via alternativa. L’illecito penale quindi non viene meno.

C’è ancora un’altra via che è possibile seguire quando ci si trova in presenza di coniugi separati in pessime condizioni economiche. Dal 1° gennaio 2016, per effetto della Legge di Stabilità, comma 226-ter, è stato istituito in via sperimentale un Fondo di solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno, e la cui dotazione, è pari a 250 mila euro per il 2016 e a 500 mila euro per il 2017 e per l’anno 2019 occorre verificare l’eventuale rifinanziamento del fondo. Pertanto, il coniuge che si trova in stato di bisogno e non ha ricevuto l’assegno di mantenimento per inadempienza del coniuge, in altre parole, se l’ex coniuge non paga l’assegno di mantenimento, può richiedere al Tribunale competente in base alla residenza, di farsi anticipare anche tutta la somma dell’assegno medesimo direttamente dallo Stato. Vediamo quindi cos’è e come funziona il Fondo per i coniugi in stato di bisogno che non ricevono dall’ex coniuge l’assegno di mantenimento, come e dove e a chi rivolgersi per richiedere l’anticipazione delle somme spettanti ma non pagate. Il Tribunale di Milano con decreto del 13 aprile 2017 ha stabilito che può presentare domanda di accesso al “fondo di solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno”, istituito con la legge 208 del 2015 (art. 1, commi 414-416), il solo coniuge a favore del quale, a seguito della separazione, è disposta l’erogazione dell’assegno di mantenimento (art. 156 c.c.), mentre una simile possibilità è esclusa se sono i figli a percepire l’assegno, erogato a loro favore ai sensi dell’art. 337 ter c.c. (il quale prevede che i genitori devono provvedere al loro mantenimento).

Tuttavia si cambia ancora sull’assegno divorzile. La Camera dei Deputati ha approvato il 13 maggio, con 386 voti favorevoli, 19 astensioni e nessun voto contrario, una proposta di legge sugli assegni di mantenimento riconosciuti agli ex coniugi dopo il divorzio. Il testo che, modificando la legge 1970 sul divorzio, intende “fornire risposte adeguate alla questione dell’equo bilanciamento degli interessi coinvolti dallo scioglimento del matrimonio”.

Finora, spiega la premessa al nuovo testo di legge “la norma sull’assegno post-matrimoniale, come interpretata da una consolidata giurisprudenza, ravvisa, come primo presupposto e criterio di determinazione dell’assegno, l’assenza di un reddito sufficiente a mantenere il tenore di vita di cui si godeva in costanza di matrimonio. In sede di giurisprudenza di legittimità si è però avuto, di recente, un segno del tutto contrario affermando infatti che l’assegno divorzile può essere concesso solamente all’ex coniuge che non abbia l’autosufficienza economica, che, cioè, non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento”. Quindi, “l’ex coniuge che non percepisca quanto è strettamente necessario per vivere può pretendere solamente gli alimenti, senza che si possa fare alcun riferimento al rapporto matrimoniale ormai estinto. Nessuna rilevanza, conseguentemente, avrebbero, tra l’altro, la durata del matrimonio e l’impegno dedicato dal coniuge alla famiglia. Altre sentenze hanno invece escluso che lo stato di povertà sia il necessario presupposto dell’assegno divorzile, per la determinazione del quale va tenuto in conto, anche, ma non esclusivamente, il tenore di vita matrimoniale insieme ad altri criteri, come l’apporto personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare”. Sentenze quindi in contrasto fra loro, a seconda della sensibilità e discrezionalità dei giudici, che hanno reso necessario un “intervento legislativo, volto a fissare precise linee normative rispondenti all’esigenza di evitare, da un lato, che lo scioglimento del matrimonio sia causa di indebito arricchimento e, dall’altro, che sia causa di degrado esistenziale del coniuge economicamente debole che abbia confidato nel programma di vita del matrimonio, dedicandosi alla cura della famiglia e rinunciando in tal modo a sviluppare una buona formazione professionale e a svolgere una proficua attività di lavoro o di impresa”.

Si legge all’art 2 del testo di legge “il tribunale valuta, in rapporto alla durata del matrimonio: le condizioni personali ed economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune; il patrimonio e il reddito di entrambi; la ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive, anche in considerazione della mancanza di un’adeguata formazione professionale o di esperienza lavorativa, quale conseguenza dell’adempimento dei doveri coniugali, nel corso della vita matrimoniale; l’impegno di cura di figli comuni minori, disabili o comunque non economicamente indipendenti; il comportamento complessivamente tenuto da ciascuno in ordine al venir meno della comunione spirituale e materiale”. Non solo, cade l’idea del mantenimento per tutta la vita, infatti “il tribunale può predeterminare la durata dell’assegno nei casi in cui la ridotta capacità reddituale del richiedente sia dovuta a ragioni contingenti o comunque superabili”. Infine, “l’assegno non è dovuto nel caso di nuove nozze, di unione civile con altra persona o di una stabile convivenza del richiedente l’assegno”.

“L’obiettivo è quello di aggiornare e migliorare questa materia rispetto a una realtà sociale certamente mutata nel corso degli anni”, spiega il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, della Lega, “arrivando a un intervento normativo che superi la visione patrimonialistica del matrimonio quale sistemazione definitiva. Non è infatti da ritenere più attuale il riferimento al tenore di vita goduto durante il matrimonio come parametro per la determinazione dell’assegno in esame.”.

In principio l’assegno di divorzio doveva garantire il mantenimento del tenore di vita (1990-2017) poi permettere al coniuge di essere autosufficiente economicamente (2017-2018) e, alla fine, compensare i sacrifici fatti e il contributo dato quando la coppia era unita (2018-oggi). Ora invece, con questa nuova legge di riforma della norma sul divorzio approvata dalla Camera dei deputati, il Giudice, detto in sintesi, dovrà considerare non tanto quanto ciascuno dei coniugi ha fatto quando era sposato ma principalmente la situazione in cui si trova al momento del divorzio. La nuova legge in sostanza, ribadisce che l’assegno non è dovuto se chi lo richiede si risposa oppure in caso di convivenza. Due principi peraltro già oggi applicati, il primo perché lo dice la legge, il secondo perché lo dicono le sentenze dal 2015 in avanti.

Infine, con l’approvazione del Reddito di Cittadinanza è bene dire che non sarà sufficiente divorziare (per finta) per ottenere il reddito di cittadinanza. Infatti, soprattutto al Sud (ma non solo, andamenti particolarmente sospetti sono stati registrati anche in Piemonte) erano giunte voci su richieste di cambi di residenza fittizi volti ad ottenere con qualche illecito escamotage il reddito di cittadinanza.

In merito al divorzio, con un emendamento nel decreto, è stata fissata una data spartiacque: qualora la separazione sia intervenuta dopo il primo settembre 2018, gli ex coniugi che facciano domanda dovranno infatti obbligatoriamente presentare, congiuntamente alla domanda per il reddito di cittadinanza, appositi “verbali certificati dalla polizia locale sul cambio di residenza”.  In caso contrario saranno automaticamente esclusi dal beneficio.

Ma ci sono altre domande che sono sorte con l’approvazione del Reddito di Cittadinanza. La prima se esonera l’ex coniuge dal pagamento degli alimenti. Però su questo argomento ancora manca la parola della Giurisprudenza e anzi ci si aspetta ricorsi da parte degli ex che pagano gli alimenti. Ovviamente ci si riferisce nella fattispecie solo al mantenimento per l’ex, mentre resta invariato il dovere di versare l’assegno per i figli minorenni e fiscalmente a carico. La seconda domanda è se il Reddito di Cittadinanza è pignorabile dall’ex coniuge. Ma anche qui, poiché nel relativo decreto non c’è una disposizione che spieghi se il reddito di cittadinanza si può pignorare o meno, non resta che attendere l’ermeneutica dei Giudici.

Il nostro codice di procedura civile (art. 545) elenca una serie di somme che non si possono mai pignorare e altre (come stipendi e pensioni) che si possono pignorare entro determinate soglie (un quinto). Tra i crediti non pignorabili ci sono quelli alimentari, i sussidi di maternità e per malattie e soprattutto «i sussidi di sostentamento a persone comprese nell’elenco dei poveri». La legge si guarda bene dal chiamare per nome tali sussidi visto che, nella storia del nostro Paese, hanno avuto nomi diversi. Ad esempio non era pignorabile il Rei, il reddito di inclusione che il reddito di cittadinanza ha soppiantato. Allo stesso modo non sono pignorabili l’assegno sociale e la pensione sociale. Al contrario è pignorabile la Naspi, ossia l’assegno di disoccupazione in quanto sostituto del reddito, così come lo è la cassa integrazione. Ci potrà per tanto essere qualche Tribunale che ritenga di consentire il pignoramento del reddito di cittadinanza, o meglio, degli importi accreditati sulla card, nei limiti in cui questi non siano necessari alla stretta sopravvivenza del beneficiario. Questo significa che la banca che vanta i crediti per le rate del mutuo, il condominio che non è riuscito a riscuotere gli oneri dei mesi precedenti, il padrone di casa che ancora non ha ottenuto il pagamento dell’affitto potrebbero decidere di pignorare il reddito di cittadinanza. Diverso è invece lo scopo della pensione di cittadinanza che, essendo indirizzata proprio a chi non può più lavorare, ha solo lo scopo di contrastare la povertà, essa dunque difficilmente sarà pignorabile.

Adduso Sebastiano

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