Petrolio a 20 dollari, ora ci credono in tanti. E il rischio di default dell’Arabia è più alto del Portogallo. RAFFAELE RICCIARDI*

Dal pubblico al privato, sono in molti a soffrire il calo del barile: la Malesia...

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Dal pubblico al privato, sono in molti a soffrire il calo del barile: la Malesia perde 68 milioni di dollari per ogni dollaro in meno di quotazione del greggio. Il valore delle assicurazioni contro il fallimento di Riad è più che raddoppiato in un anno.

MILANO – C’è chi, come Ed Morse di Citigroup, potrebbe tranquillamente girare nelle sale operative ad affermare: “L’avevo detto”. Quasi un anno fa avvertiva che il petrolio sarebbe potuto arrivare a 20 dollari (e allora si veleggiava sui 60 dollari). Ora il greggio ha infranto al ribasso – per la prima volta in oltre 12 anni – la soglia dei 30 dollari e quella quota non sembra più una provocazione, o un miraggio. “La soglia di 20 dollari è qualcosa di cui si deve parlare”, ha detto lo stesso Morse, citato in un’analisi di Bloomberg. “Quando il Wti tratta solo leggermente al di sopra di 30 dollari, la possibilità di arrivare nel range dei 20 è chiaramente elevata. Ovviamente, i mercati non possono mantenere un prezzo sotto 30 dollari a lungo. Ma la domanda è: quanto a lungo?”. Un interrogativo che oggi trova una risposta inquietante per la Russia: “Per decenni”, dice il ministro dello Sviluppo Economico di Mosca, Aleksey Ulyukaye.

Il passaggio sotto 30 dollari è avvenuto martedì, solo per pochi istanti, ma si ha dato forma a un simbolo di un momento delicatissimo per il mercato dell’energia. L’Arabia Saudita, afflitta da bilanci in rosso come accade per la Russia o l’Oman, sta cercando di correre ai ripari e vorrebbe quotare il suo gioiellino Aramco per far quadrare il bilancio pubblico: potrebbe diventare la maggior compagnia (petrolifera e non solo) al mondo sui mercati. Quanto gli investitori siano preoccupati di questa situazione è rappresentato dalla denamica dei Cds (Credit default swap), ovvero le assicurazioni contro il rischio di fallimento di un emittente. Questi titoli sull’Arabia sono schizzati a 190 punti base, martedì, un livello più che doppio rispetto a dodici mesi or sono. Per coprirsi dal rischio i default di Riad, in pratica, si spende più di quanto serva per il Portogallo (185 punti base), nonostante Lisbona sia valutata dalle agenzie di rating con un giudizio ben inferiore rispetto a quello dei sauditi (è ancora a livello ‘spazzatura’ dopo il salvataggio internazionale).

In Alaska si sta pensando per la prima volta di tassare a livello statale i redditi, in Oman è partita una spending review obbligata che limerà del 15% le uscite. Anche i privati non stanno bene: molte major hanno sospeso i programmi di trivellazione più arditi, ad esempio nel Mar del Nord. Ultime in ordine di tempo, Bp ha messo in agenda il taglio di 4mila dipendenti e Petrobras di un quarto degli investimenti. Per non parlare delle società Usa dello shale, impossibilitate a competere a livello internazionale con questi prezzi da miseria che rendono la loro struttura industriale inadeguata e troppo costosa: per il Wsj, un terzo di loro è a serio rischio di finire gambe all’aria. Negli Stati Uniti la questione è molto sentita. Da una parte, è vero che gli americani hanno ottenuto la loro indipendenza energetica e anzi hanno abolito il divieto di esportare greggio, una mossa storica. Ma i prezzi bassi causano grandi problemi finanziari a quelle società che hanno debito legato a parametri (‘covenants’ in gergo) di redditività, e per loro – secondo l’analisi di Fitch – sarà difficile anche finanziarsi per proseguire l’attività ordinaria.

Il trend non sembra destinato a cambiare: il Bloomberg Commodities Index è sceso ai minimi dal 1991 con la domanda dai mercati emergenti in continua contrazione. Il problema si estende dal pubblico al privato, dai petro-Stati alle compagnie: la Malesia perde 68 milioni di dollari per ogli dollaro in meno di prezzo del crudo, la ConocoPhillips perderà 1,79 miliardi di profitto ogni trimestre, per ogni calo del prezzo del barile di 10 dollari, secondo Barclays. Dopo Citigroup, la schiera dei ‘gufi’ del petrolio si è ampliata e con essa anche la fila di chi scommette proprio su un ribasso. Goldman Sachs Group ha dato il 50% di possibilità al petrolio di scivolare verso 20 dollari e Morgan Stanley ha richiamato il concetto lunedì, quando ha connesso la possibilità di scendere sotto 30 dollari con il rafforzamento del dollaro.

*larepubblica

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