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Home » L’Ue non rivede i criteri sul Pil: Padoan a caccia di 5 miliardi

L’Ue non rivede i criteri sul Pil: Padoan a caccia di 5 miliardi

di Redazione
4 anni fa
in Economia, Politica
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Pier Carlo Padoan

Pier Carlo Padoan

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L’Ue non rivede i criteri di calcolo del Pil e di conseguenza si cominciano a delineare i primi tagli. A cominciare dai ministeri, che nel 2017 dovranno risparmiare almeno 5 miliardi.

Il Centro studi di Confindustria dimezza le stime del governo sulla crescita. Il capo degli industriali Vincenzo Boccia chiede un patto per il Paese. Il ministro dell’Economia Padoan assicura: “Faremo meglio”. I suoi consiglieri lavorano senza sosta per cercare di far quadrare esigenze nazionali e regole finanziarie. 

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L’Ue non rivede i criteri sul Pil: il governo costretto a più tagli

Si è arenata a Bruxelles la richiesta dell’Italia e di altri sette Paesi. Nella manovra 2017 almeno 5 miliardi di risparmi a tutti i ministeri

La lettera risale ormai a sei mesi fa. Doveva essere il grimaldello per ottenere finalmente «più flessibilità dentro alle regole». L’avevano firmata in otto: oltre all’Italia, Spagna, Portogallo, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Slovenia, Slovacchia. E invece nulla. La richiesta della revisione del cosiddetto «prodotto potenziale» si è arenata negli uffici della direzione per gli affari economici e finanziari della Commissione europea. «Se ne riparla nel 2017», fanno sapere fonti comunitarie. Per capire il clima che si respira fra Roma e Bruxelles a proposito della prossima legge di bilancio occorre partire da qui. La regola dell’«output gap» indica la crescita che un Paese si stima sia in grado di realizzare in un certo momento tenendo conto dell’andamento dell’economia. Il calcolo di quel potenziale può determinare risultati molto diversi di cosiddetto saldo strutturale: sulla base dei criteri Ocse e del Fondo monetario l’Italia l’anno scorso era ad un livello ben al di sopra delle richieste (+0,5 per cento), mentre per la Commissione risultammo otto decimali sotto. Insomma, applicando un metodo diverso il governo avrebbe potuto impostare una manovra molto meno restrittiva di quella che probabilmente sarà costretta a varare.

Il momento delle decisioni si avvicina: venerdì 23 saranno noti i dati consolidati dell’Istat sui primi sei mesi del 2016, subito dopo – fra il 26 e il 27 – il Tesoro presenterà la nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza che prenderà atto delle nuove previsioni (pessimistiche) sulla crescita di quest’anno e del prossimo. A quanto pare il governo non è intenzionato a strappi con le regole imposte dalla Commissione. Certamente non lo farà prima del referendum costituzionale, lo spartiacque della carriera politica di Renzi e della legislatura. Ma a quel limite si avvicinerà il più possibile: nel vertice dei capi di Stato europei che inizia oggi a Bratislava il premier tenterà di avere il via libera ad un deficit per il 2017 che si avvicini il più possibile al 2,3 per cento, giusto un decimale in meno di quello di quest’anno. Al momento è difficile scommettere sul sì della Commissione. Ecco perché sui tavoli di Tesoro e Palazzo Chigi circolano numeri che contemplano scenari più complessi. Non è un caso se l’ipotesi dell’aumento della dote da destinare al pacchetto pensioni è tornata nel cassetto e i sindacati se ne lamentano pubblicamente.

Del resto il bilancio dello Stato è fatto di dare e avere: meno ampio sarà il margine di deficit concesso da Bruxelles, più dovranno salire la somma di maggiori entrate e minori spese necessarie a coprire le misure cui pensa il governo. La voce tagli oggi vale cinque miliardi di euro. Non proventi da spending review, ma riduzioni lineari vecchia maniera, «quelle necessarie a far tornare i conti», ammette un’autorevole fonte di governo. Dunque – Lorenzin permettendo – occorrerà tenere a bada la spesa sanitaria ma anche il budget di tutti gli altri dicasteri. Per rendere credibili le previsioni dei risparmi agli occhi della Commissione il commissario alla spesa Yoram Gutgeld sta preparando un piano triennale sugli acquisti di beni e servizi. C’è anche l’ipotesi di ridurre per almeno 500 milioni di alcuni dei tanti sgravi concessi negli anni a questo o quel settore e oggi considerati ingiustificati. Qui il condizionale è di rigore: non c’è ministro o commissario alla spesa che non abbia fatto promesse finite nel cestino dei sogni. Ogni euro in meno per un’agevolazione fiscale è un euro in più alla voce pressione fiscale, e Renzi di aumento delle tasse non vuole sentir nemmeno parlare. In ogni caso occorrerà aumentare le entrate: poiché Renzi non vuole nuovi balzelli, le uniche due voci che potranno dare un contributo rilevante senza risultare troppo impopolari sono l’aumento delle stime di proventi da lotta all’evasione e il secondo tempo della finestra per far rientrare i capitali dall’estero. Per quest’ultima Padoan ha ipotizzato quattro miliardi, in realtà fra gli esperti e al Tesoro nessuno scommette su più di 2,5 miliardi. Sempre che il governo non decida per una sanatoria vera e propria.

Twitter @alexbarbera

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