Alitalia: la Waterloo dei sindacati, Etihad vuole vendere a Lufthansa

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Alitalia, dopo la non accettazione del piano di recupero da parte dei lavoratori,  va verso l’amministrazione straordinaria, con Etihad che punterebbe a vendere a Lufthansa.

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ROMA – Più che per la nota ricorrenza, il 25 aprile 2017 passerà alla storia come la Waterloo dei sindacati. Il no al referendum sul piano Alitalia segna la fine di quel che restava della compagnia di bandiera. Oggi il consiglio di amministrazione prenderà atto del risultato e chiederà al governo la nomina di un commissario straordinario che accompagni l’azienda verso il suo approdo più probabile: la vendita – o meglio la svendita – ai tedeschi di Lufthansa. Questa volta però le troppe sigle Alitalia non potranno porre i veti che nella primavera del 2008 fecero scappare da Roma l’allora amministratore delegato di Air France-Klm Jean Cyril Spinetta, disgustato dall’arroganza con cui i leader tentarono di imporgli un piano di salvataggio diverso da quello immaginato.

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Ammette una fonte di governo sotto la richiesta di stretto anonimato: «Se oggi dicessimo agli italiani che Alitalia deve fallire riceveremmo più applausi che fischi». Se ciò non avverrà, è solo perché in ballo ci sono dodicimila posti di lavoro, un pezzo di traffico aereo italiano e conseguenze politicamente più gravi dei soldi pubblici che in ogni caso lo Stato dovrà sborsare per gestire i nuovi licenziamenti. A Fiumicino c’è già il nome di colui che dovrebbe occuparsi della delicatissima faccenda: si tratta del commercialista romano Enrico Laghi, già commissario all’Ilva.

Era possibile evitare tutto questo? Fra Tesoro e Palazzo Chigi c’è la convinzione che da parte delle sigle ci sia stata ambiguità. Sulla carta le più importanti – confederali ed Anpac – erano a favore del sì, salvo perdersi fra imbarazzate richieste di libertà di coscienza (i piloti della Uil) e silenzi sospetti. Chi ha detto no sin dall’inizio – i sindacati di base – sono divisi in due scuole: quella di chi crede nella nazionalizzazione, e quella di chi preferisce il peggio al taglio dell’8 per cento agli stipendi di chi vola. Ammette Marco Veneziani, già leader Uil e ora presidente dell’Associazione nazionale piloti: «Tutte le compagnie americane sono passate da fallimenti controllati e rinate più sane e forti di prima. Non vedo perché questo non possa accadere anche ad Alitalia». Più facile a dirsi che a farsi. Del resto in ogni compagnia convivono due mondi non sempre conciliabili: quello dei piloti – ben pagati e con un forte potere contrattuale – e tutti gli altri, assistenti di volo e personale di terra.

Quando nel 2008 fallì la trattativa con i francesi tutti ottennero sette anni di ammortizzatori sociali, pagati con soldi pubblici e da una sovrattassa sui biglietti. «Le condizioni per concedere quel tipo di privilegi non esistono più», sottolinea la fonte di governo. La gestione dell’ennesima crisi Alitalia – per la quale la manovra di primavera stanzia già 300 milioni – dovrà essere molto più rapida delle precedenti. L’azionista di maggioranza – gli arabi di Etihad – non ha voglia di perdere tempo ed è pronta a firmare con i tedeschi un accordo simile a quello con cui lo scorso autunno venne ceduto ad Eurowings – marchio low cost di Lufthansa – un terzo di Air Berlin. Né ha voglia di perdere un minuto di più Unicredit, che insieme ad Intesa si è finora fatta carico di sostenere un aumento di capitale che a questo punto è affossato dal no dei dipendenti al referendum. Fra gli esperti del settore c’è chi ha già in mente il futuro di Alitalia: una piccola compagnia regionale con quattromila dipendenti in meno che farebbe di Roma l’hub più a sud del potente network Lufthansa. Un vettore con pochi voli domestici, un po’ di collegamenti europei, quelli intercontinentali capaci di generare reddito. Un destino simile a Swiss, solo con la coda tricolore.

Twitter @alexbarbera

vivicentro.it/economia
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