Trump fa riesplodere la lotta per Gerusalemme

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Donald Trump riconosce Gerusalemme come capitale di Israele e sposta l’ambasciata da Tel Aviv. Ma, come scrive Giordano Stabile, il presidente americano “potrebbe tirare fuori dal cilindro il riconoscimento di Gerusalemme solo a Ovest”.

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La dichiarazione Usa può innescare nuovi conflitti nella regione. Erdogan e il re di Giordania furiosi, l’Arabia Saudita cerca di mediare

BEIRUT – C’è ancora un refolo di speranza nelle cancellerie dei Paesi arabi filo-occidentali. Non è legato al «quando» dell’annuncio, che sarà oggi, ma al «dove». Donald Trump potrebbe tirare fuori dal cilindro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, sì, ma solo a «Ovest». E dare qualche minima garanzia ai palestinesi sulla loro capitale, magari in un pezzo dei sobborghi orientali della Città Santa. Un «riequilibrio» che potrebbe evitare «la catastrofe». Altrimenti, per le nazioni che hanno firmato la pace con Israele, sfidato opinioni pubbliche riottose e le minacce del terrorismo islamista, il rischio è di fare un salto indietro di 20 o 40 anni, e di finire risucchiate nel «fronte della resistenza» guidato dall’Iran, al quale si è aggiunta, con tutto il suo peso, la Turchia.

Il fronte oltranzista si prepara già alla «battaglia di Gerusalemme». I palestinesi annunciano tre «giorni della rabbia» a partire da oggi, mentre le forze di sicurezza israeliane sono in massima allerta, pronte a inviare rinforzi in Cisgiordania e attorno agli obiettivi sensibili statunitensi, e le autorità americane ordinano ai loro cittadini di «evitare la Città Vecchia».

Sono attesi scontri duri e prolungati. La crisi ha ricompattato le fazioni palestinesi. Domani a Gaza Hamas porterà in piazza decine di migliaia di sostenitori, nel trentesimo anniversario della sua fondazione; a Ramallah tutte le fazioni politiche marceranno unite contro Trump.

In un clima incandescente, ad Amman, al Cairo, a Riad non si capisce il senso della scelta americana. Toccare il tasto Gerusalemme, considerata sua capitale «unica e indivisibile» dallo Stato ebraico, è visto come un regalo agli estremisti. Il più preoccupato, e che fonti diplomatiche descrivono «infuriato», è Re Abdullah di Giordania, che già vive momenti burrascosi nelle relazioni con Israele, con l’ambasciata israeliana chiusa da mesi dopo la sparatoria del 23 luglio finita con la morte di due giordani. La Giordania è stata il secondo Stato arabo a riconoscere lo Stato ebraico, dopo l’Egitto. Metà della popolazione è di origine palestinese. Una bomba pronta a esplodere in un Paese provato dall’afflusso di 700 mila profughi siriani, infiltrata da cellule dormienti dell’Isis e di Al-Qaeda.

L’altro Stato arabo in imbarazzo è l’Arabia Saudita. Il principe ereditario Mohammed bin Salman ha rotto tutti i tabù. Ha visitato lo Stato ebraico «in incognito», ha aperto in modo chiaro e netto alla possibilità di un suo riconoscimento ufficiale. Ha messo con le spalle al muro il presidente palestinese Abu Mazen e gli ha «ingiunto» di accettare il piano di pace, sulla falsariga della proposta saudita del 2002. Gli serve un’alleanza d’acciaio con Israele e con l’America per organizzare la controffensiva nella regione nei confronti dell’Iran. Ma nessun leader saudita, custode delle «Sante Moschee» alla Mecca e Medina, può avallare la «cessione» della sede della Moschea di Al-Aqsa. Così Re Salman ha chiamato Trump e gli ha sconsigliato una «flagrante provocazione» che «irriterebbe i sentimenti dei musulmani nel mondo».

Un linguaggio netto ma ancora amichevole. Le parole del presidente turco Recep Tayyip Erdogan lasciano intravedere altri programmi. Sembra l’Erdogan del dopo incidente della Mar Marmara. Ha chiesto una riunione d’emergenza dell’Organizzazione della cooperazione islamica, evocato la «rottura delle relazioni diplomatiche» con Israele. E definito Gerusalemme «la linea rossa» per i musulmani. Il leader turco torna su un terreno che gli è consono, da «difensore dell’islam», alla guida delle nazioni musulmane arabe e no. E’ un terreno che lo porta ad avvicinarsi ancora di più all’Iran, pure un rivale sciita. Il presidente Hassan Rohani gli ha fatto eco, ha invitato «tutti i Paesi islamici» a rompere i rapporti con la Stato ebraico.

Per la Repubblica islamica fondata da Khomeini l’occasione è irripetibile. E’ rientrata nei giochi mediorientali con le guerre in Siria e in Iraq, dove le sue milizie sono state decisive per battere i gruppi jihadisti. Ora ha necessità di riallacciare con le potenze sunnite. C’è riuscita in parte con la Turchia. La «battaglia di Gerusalemme» potrebbe spingere nelle sue braccia altri Stati arabi. Alla riunione della Lega araba al Cairo si è visto un Abu Mazen coccolato come non accadeva da anni. Il segretario generale Ahmed Aboul Gheit ha riassunto una posizione univoca, inedita fra i rissosi Paesi arabi: la mossa di Trump «minaccia la stabilità del Medio Oriente». Il presidente palestinese ha chiesto a Papa Francesco di intervenire sulla Casa Bianca. Poi ha ricevuto la telefonata del leader russo Vladimir Putin: lo status della città potrà essere deciso «solo nelle trattative fra Israele e i palestinesi». Lo Zar, che si è già erto a difensore dei cristiani in Siria, ha davanti a sé un’altra «opportunità strategica». Difficile immaginare che non proverà a sfruttarla.

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lastampa/Nel Medio Oriente degli scontri fratricidi riesplode la battaglia per la Città Santa GIORDANO STABILE – INVIATO A BEIRUT

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