L’esercito invisibile che solca il mondo

ESISTE un esercito di italiani invisibili, che solca il mondo per lavorare, fare affari o...

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ESISTE un esercito di italiani invisibili, che solca il mondo per lavorare, fare affari o volontariato o, semplicemente, per provare a reinventarsi una vita dove si spera ci sia spazio. Si parla pochissimo di loro, sono ai margini dei circuiti turistici, può capitare di incontrarli negli aeroporti o in fila in qualche consolato, ma li scopriamo solo quando succede qualcosa di tragico. E le tragedie, che portano il marchio del terrorismo islamico, con il loro moltiplicarsi stanno cambiando le nostre vite (ci siamo abituati a vedere i soldati nelle piazze e nelle stazioni) e fanno emergere quelle dei nostri connazionali che diventano vittime.

Sono gli italiani che riempiono il mondo per comprare tessuti, costruire dighe, riparare impianti petroliferi, curare bambini, cucinare, navigare, insegnare tecniche di irrigazione. Sono italiani che fanno fatica, che soffrono la lontananza, lo spaesamento e la difficoltà di mantenere rapporti resi impossibili dalle distanze e dai fusi orari. Ieri sera nelle nostre case sono entrati i volti di nove di loro. Arrivano quasi sempre dalla provincia italiana, quella che per decenni ha mandato nei continenti più lontani uno stuolo di suore, medici e missionari. Lavoravano tutti in aziende tessili, chi come imprenditore, chi come manager, chi come rappresentante.

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Simona Monti aveva 33 anni e si era laureata in lingue e civiltà orientali, veniva da Magliano Sabina e lavorava in un’azienda di Dacca da meno di un anno. Prima era stata in Francia, in Cina e in Perù. Aspettava un bambino. La sua breve vita somiglia a quella di tantissimi giovani figli del nostro Paese, costretti a esplorare il pianeta per trovare occasioni di lavoro.

Marco Tondat era friulano di Spilimbergo (Pordenone), domani sarebbe tornato a casa dalla sua bimba di 6 anni per portarla in vacanza. Aveva 39 anni e anche nel suo caso si era trasferito solo un anno fa, perché in patria ormai non c’erano prospettive. Friulano pure Cristian Rossi, 47 anni, che dopo anni da dipendente quando l’azienda è finita in fallimento si era messo in proprio. Alle porte di Udine dove era nato, erano rimaste le sue gemelline di 3 anni.

Claudia Maria D’Antona era torinese e la morte l’aveva vista da vicino quando aveva 23 anni: il 13 febbraio 1983 come volontaria della Croce Verde si trovò di fronte alle 64 vittime dell’incendio del Cinema Statuto. Insieme al marito, che si è salvato, era stata in India e da vent’anni gestivano un’attività in Bangladesh. Si erano sposati solo due anni fa e finanziavano un’associazione che porta chirurghi plastici a Dacca per curare le donne sfregiate con l’acido.

Adele Puglisi, catanese di 54 anni, doveva tornare in Sicilia ieri sera. Aveva lavorato in tutta l’Asia e aveva fiducia negli uomini e nella convivenza: dopo la strage del Bataclan aveva scritto sul suo profilo Facebook che il titolo di Libero (“Bastardi islamici”) era vergognoso.

Nadia Benedetti, manager di 52 anni, era nata a Viterbo e giovedì sera era stata lei ad organizzare la cena al Holey Artisan Bakery, prenotando un tavolo per sei. Il capannone dove il padre aveva avviato la sua impresa, alla periferia nord della città dei papi, è vuoto da anni. Quella che un tempo è stata una piccola zona industriale, oggi è un simbolo della crisi, con i cancelli delle aziende chiusi e gli stabilimenti ormai fatiscenti. Così Nadia era andata a continuare la tradizione di famiglia in un altro continente.

Claudio Cappelli lascia in Brianza la moglie e una bambina di 6 anni. Anche lui piccolo imprenditore tessile, era sposato con la figlia del patron della Beretta Salumi, un marchio storico di quel territorio. Dalla Lombardia veniva pure Maria Riboli, 34 anni, bergamasca di Alzano Lombardo, che è partita per una trasferta a Dacca salutando la sua bimba di soli 3 anni. Vincenzo D’Allestro, 46 anni, invece era un cittadino del mondo: nato in Svizzera, figlio di immigrati del casertano, era tornato ad Aversa e aveva aperto un’azienda di tessuti.

Le loro storie ci ricordano quelle dei due tecnici dell’azienda Bonatti rapiti e uccisi in Libia tre mesi fa. O quella di Cesare Tavella, il cooperante assassinato nello scorso settembre mentre faceva jogging, sempre a Dacca, sempre dall’Is. Terrorismo islamico che lega insieme i destini di chi all’estero invece c’era andato per studiare, come Valeria Solesin ammazzata al Bataclan, o per conoscere, come i turisti del Museo del Bardo a Tunisi – Giuseppina Biella, Francesco Caldara, Orazio Conte, Antonella Sesino – abbattuti dalle raffiche di kalashnikov. O come Giulio Regeni, ricercatore in quell’Egitto che amava, stritolato nei meccanismi perversi della guerra al jihadismo.

Un mondo silenzioso e instancabile, una rete di persone di cui di solito non ci occupiamo, che merita rispetto e ammirazione. Quelli che si alzano all’alba, quelli che solcano i continenti e che fino ad oggi non si sono mai fatti fermare. Speriamo vadano avanti e abbiano fortuna. E noi dobbiamo cominciare a raccontare la loro eccezionale normalità. Come diceva Attilio Giordano, il direttore del Venerdì , di cui ieri pomeriggio si è tenuto il funerale: “Le notizie non sono le cose che succedono. Sono tutte le cose che succedono e che la gente non sa”.

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