Giulio Regeni, la pista del delitto politico. CARLO BONINI*

Improbabile che gli autori appartengano alla criminalità comune o al terrorismo islamico: il 25 si...

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Improbabile che gli autori appartengano alla criminalità comune o al terrorismo islamico: il 25 si parlò dell’arresto di un giovane straniero. I sospetti su servizi e squadroni della morte

NON esiste in realtà alcun mistero su come sia stato assassinato Giulio Regeni. La cortina di bugie con cui il ministero dell’Interno e le autorità di polizia egiziane tentano per 24 ore di dissimulare la verità, per occultare o comunque confondere il movente dell’omicidio, non regge.

NON regge alla prova delle prime, inconfutabili circostanze di fatto che è possibile fissare in questa storia. Interpellate da “Repubblica”, tre diverse e qualificate fonti (diplomatiche, investigative e di intelligence) descrivono le condizioni del cadavere del ragazzo (trasferito ieri sera nella morgue dell’Umberto I, l’ospedale italiano al Cairo) con un medesimo aggettivo: “Indicibili “. Evidenti i segni di tortura sul corpo. Ustioni di sigaretta, la mutilazione di un orecchio, incisioni da taglio, ecchimosi profonde e diffuse. Esattamente come riferito nell’immediatezza del ritrovamento del cadavere dai magistrati della Procura di Giza, Hosam Nassar e Ahmed Nagi, frettolosamente e goffamente smentiti dal generale Khaled Shalabi, capo del dipartimento di indagini di polizia giudiziaria, e dal portavoce del ministero dell’Interno, nel tentativo di accreditare un’inverosimile confusione tra le tracce lasciate da una morte tanto “lenta” quanto atroce con quelle di un incidente stradale.

C’è di più. Giulio Regeni – proseguono le fonti di Repubblica – non solo è stato vittima di uno scempio, ma, come apparso evidente a chi ha potuto constatare lo stato di decomposizione del cadavere, è morto non molto tempo dopo essere stato sequestrato (il 25 gennaio non lontano da piazza Tahir). “Diversi giorni prima del 3 febbraio”, quando il corpo è stato ritrovato sul ciglio della strada che collega il Cairo ad Alessandria. Chi ha ucciso Giulio, dunque, ha avuto ad un certo punto fretta di liberarsi del cadavere. E lo ha fatto con una goffa messa in scena. Abbandonandolo nudo dalla cintola in giù, per poter accreditare prima un “delitto a sfondo sessuale” (questo il tenore delle prime informazioni trasmesse dalla polizia egiziana alle nostre autorità nella notte di mercoledì), quindi la pista della criminalità comune e, infine, la storia di cartapesta dell’incidente stradale.

L’ultima corrispondenza. Sapere come è stato ucciso Giulio Regeni non equivale a indovinare chi lo ha ucciso. Ma certo offre un indizio robusto che consente di escludere con ragionevole certezza sia la matrice terroristica (la morte rituale islamista dell’infedele non prevede cadaveri abbandonati clandestinamente e, soprattutto, ai boia islamisti l’osservanza coranica vieta il fumo e lo strumento di tortura dei mozziconi di sigaretta) che quella della criminalità comune, nelle cui leggi universali è scritto che ci si manifesti per avere un riscatto del proprio ostaggio.

E dunque, a meno di non voler accreditare il gesto di uno psicopatico di cui non c’è traccia nella vita e nelle relazioni intrecciate da Giulio al Cairo, resta una sola altra possibile mano. Quella mossa dal movente “politico”. Che trova un primo, significativo riscontro. Nell’ultima mail inviata il 9 gennaio al quotidiano il Manifesto, con cui aveva cominciato a collaborare con pseudonimo scrivendo un articolo a doppia firma pubblicato nel dicembre scorso, Giulio si raccomandava e confessava la sua paura. “Se decidete di mettere il mio nuovo articolo, mettetelo con lo pseudonimo, perché sono preoccupato”. Preoccupato, evidentemente, della pressione che aveva cominciato ad avvertire sui contatti egiziani con cui lavorava alla sua tesi in economia. Ma anche della pressione sull’ambiente dei professori e dei ricercatori dell’American University (che frequentava) i cui cellulari, da ieri, sono rimasti significativamente muti alle chiamate dalla redazione delManifesto.

Polizia, servizi e paramilitari. La paura confessata per mail da Giulio, non appare insomma neutra. Né lo sono il luogo e la data della sua scomparsa (il 25 gennaio, quinto anniversario della rivolta di piazza Tahir), in coincidenza con una serie di retate condotte dal regime di Al Sisi sugli oppositori. Il che porterebbe la ricerca degli assassini dritta dritta agli apparati di sicurezza del Paese. La Polizia e il famigerato Mukhabarat, il Servizio segreto. Non fosse altro perché almeno due testimonianze raccolte al Cairo riferirebbero di un giovane occidentale arrestato nel centro della città proprio quel 25 gennaio di cui non c’è traccia nelle carceri cittadine.

Si obietta che se davvero Giulio fosse stato eliminato da Polizia o Servizi, nessuno ne avrebbe fatto ritrovare il corpo. A maggior ragione in quelle condizioni. Ma, a ben vedere, l’argomento non è in grado di smontare l’ipotesi della mano e del movente politici. Come spiega una nostra qualificata fonte di intelligence, “In Egitto, la situazione degli apparati di sicurezza è, diciamo così, fluida”. Non è da escludere, insomma, che Giulio sia finito nelle mani di qualche squadrone della morte o, comunque, di qualche unità paramilitare o di polizia che, probabilmente, non ha neppure capito chi aveva fermato e nelle cui mani non ha resistito alle torture. Un fatto è certo. Con l’arrivo oggi al Cairo di un team di investigatori italiani (militari del Ros dei carabinieri e dello Sco della Polizia) il tempo per gli egiziani di trovare dei “colpevoli” plausibili per l’omicidio di Giulio si accorcia. E non sarà facile. A maggior ragione se i suoi assassini dovessero avere argomenti “convincenti” con il regime di Al Sisi per non essere consegnati alla giustizia italiana.

*larepubblica

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