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Se i greci tirano la cinghia i nordici cercano sole e arte STEFANO STEFANINI*

Redazione di Redazione
9 Febbraio 2016
in Editoriali
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Nell’epoca di Ryanair, dei villaggi turistici tropicali e delle frontiere aperte di Schengen, più della metà degli italiani non mette piede fuori dal Bel Paese. Con un Canale da traversare e con documenti da esibire, quasi tre quarti dei britannici si affacciano regolarmente fuori dalle loro isole.  

Solo evasione dalla pioggia e dalle nebbie?  

Schengen è importante, e non soltanto per quanto costerebbe rinunciarvi in rallentamento di crescita e perdita di competitività. È, come l’euro, una prova tangibile che l’Europa c’è, a beneficio dei cittadini. Scopriamo però forti discrepanze nazionali nell’approfittarne. Con un colpo di spugna il Trattato ha cancellato le frontiere fisiche non quelle psicologiche e sociali, radicate nella vita di ogni giorno e nei comportamenti della gente comune.  

Cosa dicono queste cifre? Molte cose ovvie. I nordici (da sempre) viaggiano alla ricerca del sole. Ai lussemburghesi basta distrarsi per qualche decina di chilometri per ritrovarsi all’estero; sloveni, belgi, olandesi non stanno molto diversamente. Viaggiare costa. Con la consolazione di mare e isole in abbondanza, i greci hanno tirato drammaticamente la cinghia; portoghesi e spagnoli non molto meno. In Europa orientale il turismo all’estero è ancora un lusso che poco più di un terzo della popolazione può permettersi. 

Clima, geografia, reddito spiegano molto. Non tutto. Il 90% degli olandesi, norvegesi, svedesi, danesi, l’80% dei tedeschi e il 70% dei britannici rivelano anche una propensione al viaggio e alla scoperta che evidentemente altri paesi non avvertono. Vi confluiscono abitudini, culture, inconsci ricordi coloniali. Gli italiani sono più attaccati al bel suol natio, spiegano «viviamo nel Paese più bello del mondo» (non a lungo se non lo conserviamo tale…). I francesi, non certo di meno quanto a vanto nazionale, sono a metà strada (con una Francia oltremare che non conta come estero Polinesia e Martinica).  

Queste statistiche non colgono il fenomeno di chi, per affari, studio e lavoro, viaggia frequentemente: imprenditori, italiani in testa pronti a saltare in aereo dovunque si presentino opportunità, dal Pakistan al Paraguay; la generazione Erasmus; i giornalisti come quelli che scrivono su queste colonne, i militari in missione, i politici, i diplomatici, gli artisti, gli scienziati. Ma sono (siamo) una minoranza. Le medie nazionali di giorni all’estero (8,4 per l’Italia) sono rivelatrici.  

Minoranza numerosa ma sempre elitaria. Mancano qui dei dati, ma si può osservare una certa uniformità nella somma fra chi non viaggia mai e chi viaggia solo una volta all’anno: il numero di chi viaggia almeno due volte all’anno si aggira per tutti i paesi, certo per i quattro maggiori (Francia, Germania, Italia, UK), intorno al 70%.  

I comportamenti sono dunque significativamente più uniformi in queste minoranze che nelle intere popolazioni nazionali. E segnano la direzione di marcia, guardando alla generazione di Erasmus e dei social media. Il pericolo è però di sottovalutare le diversità che permangono nel restante 30% dei cittadini e di sottoporli ad un prematuro rullo compressore di uniformità regolamentari. Non meravigliamoci se rispondono con l’anti-europeismo. 

L’Europa contemporanea è fatta di differenze nazionali e culturali che vanno rispettate. Come dimostrano queste cifre, i comportamenti non si unificano, se non nelle medie statistiche.  

 
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