La solitudine di chi si trasferisce in un piccolo paese

Il piccolo paese è tanto suggestivo ma tanto scomodo. I miei due amici ne erano...

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Il piccolo paese è tanto suggestivo ma tanto scomodo. I miei due amici ne erano consci, e pronti a pagarne il fio. 

Coppia ancora giovane, con tre figli piccoli. Decisi a “cercare una diversa dimensione di vita”. Avevano individuato la meta della loro fuga dalla città – un paesino di montagna, una casetta fra i boschi – e messo in conto i possibili disagi.

Il paese era davvero piccolo: uno dei tanti delle nostre vallate, un tempo popolatissimi, che si sono svuotati negli anni del boom riducendosi a qualche decina di residenti. Vita sociale, pochina. Servizi, ancora meno. Però la città era a tre quarti d’ora di auto, e c’era pure la corriera. Il lavoro non ne avrebbe risentito, e anche i servizi sembravano a portata di mano. Nessun problema per la scuola: nel paesone a fondovalle, a venti minuti dalla porta di casa, c’erano asilo, elementari e medie. Con l’orario prolungato. Fantastico.

Si trasferirono alla fine della primavera. L’estate fu deliziosa. Arrivavano i villeggianti, il paese si rianimava. Fu organizzata persino una rassegna di musiche e balli occitani. E’ vero: la tivù prendeva poco e male. Ma che importava? Sedevano al bar, guardavano il tramonto mentre i bambini ruzzavano liberi nella piazzetta; e si sentivano felici. A lei piaceva fare la spesa allo spaccio, un posto incantato dove trovavi di tutto: i giornali, la carta moschicida, il pane fresco, il detersivo, e persino qualche libro e certe cartoline che dovevano essere lì almeno dagli Anni Sessanta.

A settembre i villeggianti sparirono. E sorse un primo, lieve intoppo. Furono ridotte le corse dalla corriera: il servizio era antieconomico. Restava l’auto, d’accordo. Ma i due fuggiaschi dalla città (già un po’ meno felici) notarono soltanto allora che non c’era una sola pompa di benzina in paese, e neppure lungo la strada che portava alla pianura. Guai a dimenticarsi di fare il pieno. Tanto più che i venti minuti del tragitto verso valle raddoppiavano regolarmente: ora le curve, ora il trattore non sorpassabile per via delle curve, ora un furioso acquazzone, rendevano infiniti quei chilometri che sulla cartina sembravano così pochi. Poi venne l’inverno e i due fuggiaschi dalla città ricordarono con nostalgia i bei tempi quando s’indignavano se, dopo una nevicata, alle sei del mattino non trovavano le vie cittadine linde e sgombre come il corridoio di casa.

La sera guardavano ancora il tramonto. Ma sognavano un cinemino. Il cinema più vicino era in città. E in paese non organizzavano più neppure i balli occitani. Tuttavia la questione appariva secondaria, dacché il figlio minore s’era ammalato e lui era partito di notte sotto la neve alla ricerca di una farmacia. Molestato da cupe riflessioni sull’eventualità di un’emergenza medica seria.

Cominciarono a sentirsi un po’ soli. Il bar era spesso chiuso, e se era aperto c’erano i soliti quattro anziani, e dopo un po’ anche i suggestivi racconti degli anziani annoiano.

La posta arrivava a giorni alterni, quando arrivava. Lo sapevano fin dall’inizio: ma in fondo, s’erano detti, chi scrive più lettere? Oggi c’è Internet. Già. Magari in pianura. Tra i boschi felici la rete è lenta e piena di buchi. Accantonarono i progetti di telelavoro. Però qualche mail dovevano spedirla. Una volta ci riuscirono dopo quasi cinque ore di tentativi frustranti. Quando la mail partì, i due fuggiaschi dalla città si guardarono in faccia. Non dissero nulla. Non servivano parole.

P.S. I miei amici mi pregano di approfittare del presente articolo per segnalare ai gentili lettori che c’è in vendita una graziosa casetta tra i boschi, in una ridente vallata piemontese, a pochi passi da un suggestivo paesino, appena a tre quarti d’ora dalla città. Prezzo convenientissimo.

vivicentro.it/cultura –  lastampa/La solitudine di chi si trasferisce in un piccolo paese GABRIELE FERARRIS

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